Pubblichiamo l’intervento di Tiziana Albanese, rappresentante dell’organizzazione Trinacria, promotrice della seconda conferenza internazionale “Percorsi di Indipendenza in Europa” svoltasi il 30 marzo presso L’Assemblea Regionale Siciliana.
Buon pomeriggio a tutti, ci tenevamo a farvi un saluto in quanto organizzatori del convegno, anche per raccogliere le vostre proposte e ciò che è stato detto durante i diversi interventi, e provare a rilanciarle.
Saremo brevissimi, ce lo siamo detti più volte perché ci rendiamo conto che il convegno è stato lungo e le cose dette tante, vorremmo semplicemente salutare gli ospiti e rilanciare i prossimi momenti; come si diceva all’inizio, il convegno si inserisce nella coda del Vespro, che vedrà altri momenti di incontro e soprattutto una manifestazione questo sabato.
Abbiamo voluto dedicare questo secondo convegno internazionale al tema delle autonomie locali e interne perché, secondo noi, è necessario incontrarci con partiti, movimenti e organizzazioni che sono attivi in Europa per dibattere di questo tema, più che mai attuale.
Il riferimento all’Europa non è affatto casuale, perché le problematiche legate alla differenziazione in ambito comunitario del rapporto tra Stati centrali e regioni, al centro del dibattito proprio in seno all’Europa, sia giuridico che istituzionale, molto vivace, prende le mosse dalla famosa Carta europea dell’autonomia locale, approvata il 15 ottobre del 1985 a Strasburgo.
Il dibattito che è venuto fuori dall’istituzione della Carta in Italia ha portato all’istituzione della Conferenza Stato-regioni e alla riforma del titolo V della Costituzione, quella a cui si appellano attualmente le tre regioni che chiedono l’autonomia differenziata.
L’insieme delle problematiche che affrontano il nodo dei poteri sovrani, nazionali e delle loro distribuzioni regionali, è un tema centrale che ha delle ripercussioni all’interno dell’Italia, ma anche degli altri Stati. Credo sia centrale la crisi tra la Spagna e la Catalogna, che spiega perfettamente il rapporto tra l’indipendenza e l’Europa.
Infatti, nonostante sulla carta l’Europa riconosca una centralità delle regioni autonome, riconosca che i rappresentanti di queste regioni autonome abbiano un ruolo centrale all’interno di processi decisionali – citando quasi testualmente un passo della Carta europea – poi, nei fatti, quando si hanno processi di indipendenza, quando c’è un referendum in cui la stragrande maggioranza della popolazione si esprime in maniera favorevole, l’Europa, quando nazioni come la Catalogna bussano alle porte, le chiude.
È quindi evidente che c’è uno scollamento tra quello che sulla carta è riconosciuto e quello che, nei fatti, avviene.
Credo che per meglio intendere il rapporto storico, giuridico, ma anche attuale tra indipendenza e autonomia, bisogna innanzitutto tenere presente che, almeno a mio avviso, esistono almeno due letture diverse di autonomia e due applicazioni diverse. Il binomio è perfettamente evidente in questi giorni, proprio quando ci si confronta con il fatto che in Italia coesistono cinque regioni a statuto autonomo, con degli statuti che, in alcuni casi, di fatto non sono mai stati applicati, e che questa condizione coesiste con la proposta di autonomia differenziata, che invece minaccia di essere applicata perché portata avanti dalla maggioranza del governo italiano.
Credo che il rapporto tra autonomia e indipendenza si veda non soltanto nei paesi d’Europa, ma se guardiamo anche un po’ più indietro, anche fuori dal contesto europeo. Prendiamo il caso dell’Algeria: anche in quel caso, prima di raggiungere la vera indipendenza, che si conquisterà nel Sessantadue, uno dei tentativi dello Stato francese per sedare la lotta di liberazione nazionale in Algeria fu proprio quello di proporre di applicare lo statuto, che era rimasto invece inapplicato, del 1947.
Si può anche citare, sempre per rimanere fuori dall’Europa e per capire che quello di concedere gli statuti e le autonomie per sedare i fronti di liberazione nazionale è proprio uno stratagemma degli Stati nazionali, il caso dell’India. Anche qui, quando il popolo indiano rivendicava l’indipendenza, il governo inglese rispose con l’autonomia.
Sia nel caso dell’Algeria che nel caso dell’India, però, le due nazioni rifiutarono l’autonomia e continuarono la lotta verso la totale indipendenza.
Anche nel caso della Catalogna il tentativo fu quello di concedere nuove autonomie nel 2006, ma la risposta del popolo catalano fu il referendum auto-organizzato, voluto e poi votato dalla stragrande maggioranza della popolazione con esito favorevole.
La Sicilia risponde esattamente a questo schema. La Sicilia del secondo dopoguerra è una Sicilia in cui il movimento per l’indipendenza dell’isola – il MIS – aveva tantissimo consenso e un forte radicamento – dal punto di vista istituzionale, ma anche da quello popolare. Mentre l’Italia si divideva tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, in Sicilia il primo partito in assoluto era quello indipendentista. Il MIS raccoglieva il consenso di tutti perché era chiaro che la piaga della Sicilia fosse la sua presenza nello Stato italiano e il rapporto coloniale che esisteva, e che esiste ancora, tra lo Stato centrale e la Sicilia.
Il MIS ad un certo punto comincia anche a radicalizzare le pratiche, muovendosi verso la praticata della lotta armata. La risposta dello Stato italiano è quella, da un lato, della repressione – che porterà, tra le altre cose, alla morte del comandante dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, Antonio Canepa – dall’altro, c’è lo stratagemma pronto e già utilizzato in altre occasioni che può essere anche in questo caso riproposto: fermare la lotta di liberazione nazionale accettando lo Statuto di autonomia, concesso alla Sicilia nel 1946.
Il tentativo fu proprio quello – riuscito, in parte – di far rientrare la Sicilia nell’alveolo dello Stato italiano; siamo in un periodo in cui c’era anche un ordine mondiale più ampio da rispettare e quindi la necessità che tutto tornasse nella norma. L’indipendentismo in Sicilia aveva fatto sì che si muovessero poteri che andavano oltre quello nazionale italiano – coinvolgendo una serie di questioni più ampie in cui non entro nello specifico.
La fase in cui ci troviamo noi oggi è quindi questa. Veniamo da un periodo di lotta nazionale molto forte che si è fermata con la concessione dello statuto.
Siamo nella fase post-autonomia, per cui, per noi, discutere ancora oggi se l’autonomia sia un passaggio a cui dire no o meno sembra un po’ inutile. Ci troviamo in una fase successiva, come la Sardegna, in cui il popolo siciliano sta riprendendo consapevolezza di come l’autonomia sia stata non soltanto inutile poiché inapplicata, ma come fu proprio una trappola per frenare le istanze indipendentiste.
Il punto oggi è quello di continuare a lottare contro questa autonomia; la lotta oggi in Sicilia non è per l’applicazione dello statuto, ma contro l’autonomia e contro l’idea di autonomia che hanno gli Stati nazione, concepita proprio per fermare i popoli in lotta.
Contemporaneamente, per gli stessi motivi di prima – Giulia Lai prima ha perfettamente riassunto il nostro punto di vista – ci schieriamo contro l’autonomia differenziata, che è un’autonomia in un certo senso un po’ diversa. Mentre le nostre sono autonomie che io definirei abrogative, che hanno proprio lo scopo di sedare le istanze di autodeterminazione, nel caso dell’autonomia differenziata si tratta più di un’autonomia costitutiva, che ha come obiettivo quello di concentrare ricchezza nelle mani delle classi egemoni che in Italia si trovano tutte nelle regioni del Nord.
Quindi è un’autonomia legata alle prospettive della concentrazione capitalista: un principio un po’ diverso, ma l’obiettivo è sempre quello di creare un ceto dominante locale che risponda agli interessi nazionali – che coincidono con quelli di Lombardia, Veneto, ed Emilia Romagna e non con i nostri – e che quindi, come le Segreterie dei loro partiti a Roma, sono assolutamente da combattere e contrastare.
L’analisi credo sia questa, credo che l’indipendenza sia l’unica via per un riscatto vero della Sicilia.
Per concludere descrivo brevemente il quadro della Sicilia, mi bastano poche parole: siamo la regione con i più alti tassi di disoccupazione, giovanile e non; viviamo un fenomeno, quello dell’emigrazione, che ha ridotto in pochissimi anni la popolazione della Sicilia di ⅕ e che rischia di ridurla ulteriormente, dato che non vi sono segnali di inversione della rotta – e non lo diciamo noi che siamo indipendentisti e quindi di parte, ma lo dicono gli istituti pagati dal governo italiano; una condizione di povertà che è assolutamente certificata, che quindi ci rende i migliori (in negativo) in Europa; un ulteriore accanimento, non solo di conservazione di degrado sociale, economico e culturale ma anzi di peggioramento di queste condizioni tramite le minacce continue di mandare sul lastrico intere famiglie che percepiscono il Reddito di Cittadinanza, pensionati sociali o lavoratori.
Se il quadro è questo bisogna, dal nostro punto di vista, inserirci a rivoltarlo. Credo che il tempo dell’azione sia ora, che lo spazio sia, per noi, la Sicilia. La Sicilia nello scontro con lo Stato italiano ma anche la Sicilia all’interno dell’Europa, nei termini di riuscire a costruire alleanze con altri popoli che, come noi, oggi lottano per l’autodeterminazione, ai quali auguriamo: a ognuno la sua battaglia, a tutti la lotta e la vittoria.
Lascia un commento