Pubblichiamo l’intervento di Andrea Bartolo, responsabile per le relazioni con i popoli dello Stato italiano di “Askapena – Euskal Herriko erakunde internazionalista” alla seconda conferenza internazionale “Percorsi di Indipendenza in Europa” svoltasi il 30 marzo presso L’Assemblea Regionale Siciliana.
Mi chiamo Andrea Bartolo e oggi intervengo a nome dell’organizzazione internazionalista Askapena. Per iniziare vorrei ringraziare l’organizzazione Trinacria dell’invito: per noi di Askapena è un piacere e un onore partecipare a momenti di dibattito e riflessione come questi, che riteniamo occasioni importanti per far avanzare la lotta indipendentista e la solidarietà internazionalista.
Come Askapena, l’intervento che abbiamo preparato sarà diverso rispetto ad altri partiti o organizzazioni, poiché non essendo un partito politico non parleremo in concreto dello Statuto delle Autonomie spagnolo o della situazione dei Paesi Baschi sotto questo punto di vista; piuttosto ci concentreremo su quale deve essere, secondo noi, il punto di partenza politico dell’analisi da una prospettiva marxista e materialista e l’ipotesi di lotta che possiamo proporre in quanto indipendentisti, socialisti e internazionalisti.
Anticipando ciò che sicuramente verrà detto successivamente, è evidente che la riforma dell’autonomia differenziata per le regioni dello Stato italiano porterà quest’ultimo a un rafforzamento in senso coloniale, a un aumento delle disuguaglianze di classe e tra Nord e Sud Italia, con un’ulteriore periferizzazione del Meridione. Ci sembra che tutti questi casi non siano casuali e sentiamo la necessità di collegare il caso concreto e singolare del Meridione – e tutti i tentativi speculari che in questo senso si stanno dando in Europa – con la tendenza generale dello sviluppo del modo di produzione del modello capitalista.
Quando parliamo di tendenze dello sviluppo capitalistico, stiamo parlando delle due macro tendenze, le due colonne portanti che accompagnano la storia dell’economia capitalista e che si stanno acuendo ogni giorno di più: da una parte la guerra di classe, intesa come sintomo della pauperizzazione della classe lavoratrice e per garantire la classe di profitto alla borghesia globale – di conseguenza la tendenza alla guerra di classe, la lotta di classe intesa come motore della storia – mentre dall’altra parte l’imperialismo, non inteso soltanto nel senso stretto del termine, ma come dominazione, come una dipendenza tra un centro imperialista e una periferia indipendentista, basata sulla legge dello sviluppo diseguale e sulla dialettica sviluppo – sottosviluppo. Non potrebbe esistere un centro sviluppato se non esistesse e non si producesse una periferia sottosviluppata.
In questo senso quando diciamo imperialismo non ci stiamo riferendo solamente alla guerra e all’offensiva che in questo momento sta vedendo la NATO in gioco a livello globale o al militarismo spingente d’occidente; stiamo parlando anche della necessità di collegare i casi concreti dell’offensiva coloniale, di vera e propria guerra di classe, con ciò che si sta dando nello Stato italiano, a un’analisi globale che attua il sistema capitalista. Ma come, in concreto? Tramite l’Unione europea, intesa come una struttura e un’istituzione propria del capitale e luogo di accumulazione della borghesia imperialista regionale europea.
Da anni Askapena porta avanti una lotta contro l’Unione Europea, contro l’imperialismo e la crisi capitalista, considerandole facce di una stessa medaglia. Non riteniamo che l’Unione Europea sia una semplice struttura burocratica di coordinazione regionale o di accordi economici a livello interstatale; riteniamo piuttosto che sia la forma che assume il capitale europeo nella sua divisione internazionale del lavoro e spartizione imperialistica del mondo.
Consideriamo necessario a livello indipendentista e socialista una critica alla totalità dell’Unione Europea; sosteniamo che non sarà possibile l’indipendenza socialista dei popoli oppressi, come l’Euskal Herria, come la Sicilia e il Meridione, fino a quando sopravvivrà l’Unione Europea, perché questa fa da prigione, garante dello status quo di classe e imperialista, della violazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e dell’unità degli Stati. Riteniamo che tutte le misure di centralizzazione e di neo-centralizzazione che si stanno dando a livello degli Stati membri europei siano un’offensiva all’indipendentismo, per la perpetuazione dell’oppressione ai popoli e come parte della più globale offensiva capitalista, fuori e dentro l’Unione Europea.
In questo contesto di ristrutturazione capitalistica, la lotta di classe dall’alto assume due forme: la cristallizzazione delle tendenze che abbiamo visto in precedenza, la lotta di classe e l’imperialismo. Da una parte abbiamo quindi il capitalismo di crisi, che vediamo palesarsi nelle politiche di austerità economica, nell’immobilizzazione della classe lavoratrice, nel declassamento delle classi medie, nell’aumento dell’inflazione; mentre dall’altra parte troviamo la forza dello Stato imperialista, con politiche di centralizzazione statale e guerra ai popoli oppressi, che si traduce nella periferizzazione del Sud Europa come semi-periferia imperialista, come è possibile notare dalla liberalizzazione e la settorizzazione dell’economia, la distruzione delle culture periferiche, la centralizzazione politico-amministrativa, di cui ne è esempio il caso del decreto proposto per le regioni italiane; ma lo vediamo anche con la repressione, come nel caso del referendum in Catalogna, nella discriminazione linguistica, nella divisione amministrativa dello stato spagnolo o francese.
Di fronte a tutto ciò è necessario chiedersi: qual è la prospettiva rivoluzionaria che si può aprire a partire da queste contraddizioni borghesi? Che possibilità c’è di curvare queste lotte, da delle riforme circoscritte al sistema a una lotta rivoluzionaria?
Per noi la chiave sta nella dialettica riforma-rivoluzione. La nostra ipotesi infatti è quella di accentuare ulteriormente la contraddizione. A questo punto potremmo chiederci, in che senso? Perché parliamo di contraddizione quando parliamo di riforme delle regioni o dello statuto d’autonomia?
È necessario comprendere che gli statuti autonomi non sono mai stati espressione della classe lavoratrice, piuttosto storicamente hanno sempre assunto la funzione contraria: pacificare il conflitto di classe e il conflitto nazionale, perpetuando il potere della borghesia imperialista e l’unità statale con piccole concessioni, che siano di carattere economico, politico o popolare.
Alla luce di ciò la lotta dei popoli per noi deve assumere necessariamente la forma radicale dell’indipendenza socialista attraverso la presa del potere, l’espropriazione dei mezzi di produzione e l’estinzione delle relazioni di produzione capitalista, che sia di tipo economico o sociale.
Per questo motivo la lotta per l’aumento delle competenze regionali, che sta alla base di tutti gli statuti autonomisti o – in generale – della questione delle regioni. Per noi questa è una lotta dentro la contraddizione borghese che rafforza la cornice dello Stato capitalista e imperialista come sintesi e mediazione di differenti culture, politiche e interessi di classe, che non può che rafforzare il nemico.
Detto questo, lo Statuto di autonomia non è di certo il fine della lotta, ma affermare che non lo sia per noi indipendentisti socialisti non vuol dire che non possa essere un mezzo; evidentemente lo è e necessariamente deve esserlo, soprattutto quando si parla di ridurre i diritti concreti dei popoli e delle classi lavoratrici dei popoli oppressi, come nel caso del decreto proposto dello Stato italiano.
La questione sta quindi sempre, come dicevamo prima, nella dialettica riforma-rivoluzione: opporsi alla riforma dello Statuto, opporsi alla riforma delle regioni e creare una lotta politica e culturale. Non per mantenere lo status quo e lo Statuto, ma per dare un salto qualitativo alla coscienza nazionale di classe.
In questo caso la lotta tra diritti astratti, quelli borghesi, può essere e deve essere uno strumento se organizzato dentro una strategia rivoluzionaria per la consecuzione dei diritti concreti, di classe.
Per concludere, direi che questa non è stata solamente l’analisi di Askapena, ma è stato un po’ il riassunto della storia delle modalità di lotta nei Paesi Baschi sulla questione dello Statuto di autonomia.
Nei Paesi Baschi il movimento di liberazione nazionale ha sempre cavalcato questa contraddizione, al fine di opporsi agli statuti di autonomia come strumento di dominazione dello Stato spagnolo, nella cornice del regime di quella che viene chiamata democrazia spagnola, approfittando di tutti i tentativi di centralizzazione della Spagna per poter mettere ancora più in evidenza la lotta. Non rivendicando lo Statuto in sé, ma facendo dei salti qualitativi verso l’indipendenza e il socialismo. Non evitando le contraddizioni, ma usandole, accentuandole, cambiandole nel campo della guerra di classe e di liberazione nazionale.
Che ben vengano le lotte a difesa dei diritti dei popoli, non necessarie come lotte conservatrici o difensive, ma come punto di partenza per approfondire le contraddizioni e curvare la tendenza. Come diceva Lenin: “Flessibilità tattica, rigidezza strategica”; il contesto è in costante cambiamento, quindi dobbiamo essere flessibili, le nostre tattiche devono essere flessibili, ma la nostra strategia deve essere ferma e rigida.
Per l’indipendenza e il socialismo, per la liberazione nazionale e per liberazione sociale.
Lascia un commento