È di questi giorni la notizia relativa al nuovo ddl messo appunto dalla giunta regionale di Renato Schifani in materia di ripristino delle ex province. Una notizia che ha riacceso il dibattito sul fallimento della riforma del 2014, ma anche sui limiti di un eventuale ripristino dell’assetto istituzionale precedente.
Il Presidente della Regione Schifani ha così commentato il ddl del suo: «la cancellazione delle Province, fortemente voluta dal governo dell’epoca e rivendicata dalle forze che lo sostenevano nel Parlamento regionale partiva dal presupposto della riduzione dei costi della politica, ma ha determinato un vuoto nei processi decisionali e amministrativi che ha penalizzato in maniera evidente l’erogazione di servizi importanti per i cittadini e per la tutela del territorio, oltre a ridurre gli spazi di democrazia diretta e di espressione politica. Il numero di consiglieri e di assessori sarà inferiore rispetto a quello del passato, secondo una logica di sobrietà che guarda al contenimento dei costi e di snellezza e efficienza dei nuovi enti».
Le motivazioni assunte da Schifani a giustificazione del ddl hanno certamente alcuni rilievi di fondatezza, ma il vero rischio della “riforma” – la cui introduzione è comunque vincolata al superamento della legge Delrio a livello nazionale – è che nella sostanza poco cambi sul piano dell’efficienza amministrativa e della qualità della vita dei cittadini. La vera beffa, inoltre, rischia di riguardare i costi istituzionali lievitati a causa della reintroduzione degli organi elettivi – dal presidente ai consigli provinciali – che potrebbero rappresentare “posti” utili per il personale politico in esubero dei principali partiti italiani.
A prescindere dal contenuto del ddl, incentrato più su composizione degli organi politici e sistema elettorale, il problema delle province siciliane è in realtà assai più complesso. I veri nodi della questione, infatti, riguardano soprattutto competenze (solo sfiorate dal ddl), finanza e organizzazione del territorio regionale.
Il tema delle competenze si intreccia integralmente con quello finanziario. A circa nove anni dall’approvazione della riforma del 2014 che ha trasformato le province di Palermo, Catania e Messina in città metropolitane e le restanti sei ex province in liberi consorzi, questi ultimi sono amministrati da commissari, non posseggono i fondi necessari per adempiere alla manutenzione ordinaria di scuole e strade nonché ad altri servizi essenziali e progetti, arrivando a sfiorare il rischio default. Questa situazione è stata certificata anche dalla Corte dei Conti. I giudici hanno infatti messo in guardia circa gli «squilibri strutturali tra entrate e spese» che «rischiano di degenerare in situazioni di paralisi funzionale» e da cui deriva la «riduzione al minimo dell’attività istituzionale svolta dai liberi consorzi».
I problemi evidenziati dalla Corte dei Conti sono l’effetto diretto della farraginosa riforma del 2014, ma più in profondità riflettono anche le dinamiche dei rapporti finanziari tra enti locali, Regione Siciliana e Stato. La riforma Crocetta ha infatti attribuito nuove funzioni alle ex province, senza però garantire fonti di finanziamento certe e adeguate alla nuova mole di competenze. Il tutto, peraltro, in un periodo nel quale – con la riforma Delrio – lo Stato aveva deciso di depotenziare i trasferimenti agli enti locali, gravando di fatto sulle sole spalle della Regione Siciliana il peso del sovvenzionamento delle ex province.
Pertanto, fin quando non verranno affrontati il nodo di una distribuzione efficiente e realistica delle competenze e, al contempo, quello dei rapporti finanziari tra i vari livelli di potere, ogni riforma o controriforma avrà un mero effetto “cosmetico”, incapace di garantire gli adeguati servizi ai cittadini ed aiutare l’economia locale a crescere.
Ai temi già affrontati, inoltre, occorrerebbe aggiungere una riflessione più profonda, capace di mettere in discussione il concetto stesso di “provincia” come fin qui inteso ed i confini, molto spesso arbitrari, delle nove ex province siciliane. La Sicilia, infatti, sia per la sua estensione geografica che per la sua varietà economica, culturale e naturale, contiene in sé delle vere e proprie “micro-regioni” (dalle Madonie alla Valle del Belice, dal Calatino alla Piana di Catania, per fare degli esempi), le quali non corrispondono ai confini amministrativi delle nove province.
Se i legislatori siciliani del 2023 avessero inventiva e coraggio maggiori, potrebbero prendere spunto anche dal passato dell’isola (si pensi, per esempio, all’organizzazione in distretti prevista dalla Costituzione del 1812, abolita solo dopo l’unità d’Italia) al fine di immaginare un decentramento autentico, capace di avvicinare il livello amministrativo intermedio tra Comune e Regione alle necessità dei cittadini e, contemporaneamente, esaltare la vocazione al policentrismo che alla nostra isola è sempre appartenuta.
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