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  • Eni si fa bio a Gela. Petrolio, palma, ricino… sempre la stessa storia

    Eni si fa bio a Gela. Petrolio, palma, ricino… sempre la stessa storia

    «11 ottobre 2022 – Il primo cargo di olio vegetale per la bioraffinazione prodotto da Eni in Kenya è partito dal porto di Mombasa, diretto alla bioraffineria di Gela. Si avvia così il sistema di trasporto e logistica che supporterà la catena del valore nel Paese, partendo da una produzione di 2.500 tonnellate entro la fine del 2022, per poi salire rapidamente a 20.000 tonnellate nel 2023». Comincia così il comunicato di Eni sull’avvio delle importazioni di olio vegetale che riforniranno lo stabilimento siciliano per la produzione di “biocarburanti”.

    Da olio di palma a olio di ricino

    L’olio di ricino servirà a sostituire l’olio di palma proveniente dall’Indonesia, attualmente utilizzato nell’impianto gelese, che ENI definisce la “più innovativa bioraffineria d’Europa”. L’olio di palma, utilizzato inizialmente per la “bioraffineria”, rappresenta in realtà il simbolo dello sfruttamento ambientale; la sua produzione ha causato enormi devastazioni ecologiche nei paesi in cui è avvenuta.

    Ad aprile dello scorso anno il Parlamento italiano, recependo la legge di delegazione europea, ha stabilito il divieto di miscelazione dell’olio di palma (e dell’olio di soia) al combustibile diesel a partire dal 1° gennaio 2023. Ecco perché da più di un anno ENI sta lavorando per la sua sostituzione con l’olio di ricino.
    E così, a partire da luglio viene prodotta la nuova materia prima nell’agri-hub di Makueni (Kenya), dove avviene la spremitura di sementi di ricino, di croton e di cotone. La produzione di biocarburanti a Gela prevista per il 2022 dovrebbe arrivare a 2.500 tonnellate, per raggiungere le 20mila tonnellate nel 2023.
    A leggere la presentazione di Eni di questa nuova materia prima, sembrerebbe un paradiso ecologico. «Sono agri-feedstock non in competizione con la filiera alimentare, coltivati in aree degradate, raccolti da alberi spontanei o risultanti dalla valorizzazione di sotto-prodotti agricoli, offrendo opportunità di reddito e accesso al mercato a migliaia di agricoltori. Nel centro, inoltre, si producono anche mangimi e bio-fertilizzanti, derivati dalla componente proteica dei semi, a beneficio delle produzioni zootecniche, contribuendo così alla sicurezza alimentare». Una narrazione chiaramente fantascientifica, se si conosce anche minimamente la capacità distruttiva della presenza di Eni in qualsiasi parte del mondo.

    Tra l’altro, presentato come grande passo verso la sostenibilità e le emissioni zero, in realtà anche questo nel biocarburante i derivati del petrolio, estratto nei pozzi gelesi, ci sono ancora.

    Il viaggio dell’olio lungo migliaia di kilometri

    Oltre alle perplessità rispetto alla provenienza degli oli vegetali, si aggiunge anche un problema di sostenibilità nel trasporto. Infatti, si legge sull’ultimo report di A Sud: «l’olio di ricino sarà trasportato via mare attraverso i flexibag, per approdare ai porti di Palermo e Catania. Da qui, tramite camion, l’olio percorrerà altri 200 chilometri (da Palermo) e 100 chilometri (da Catania) per giungere a Gela. All’ultima assemblea degli azionisti ENI ha ammesso che i calcoli emissivi associati sono in fase di calcolo, anche se assicura che saranno comunque sensibilmente inferiori, lungo l’intera catena produttiva, rispetto ad altri feedstock di origine vegetale. Insomma, sta di fatto che l’enorme viaggio di quest’oli ha ben poco di sostenibile. Logica vorrebbe che una “BIOraffineria” perseguisse i principi dell’economia circolare, del riciclo; utilizzando per esempio gli oli esausti prodotti almeno sul territorio italiano. Ovviamente, però, dovendo sottostare alle necessità di profitto della multinazionale conviene esportare e produrre in quantità gigantesche.

    L’obiettivo di Eni è infatti rendere Gela il centro di produzione di carburanti verdi per l’aviazione, i cosiddetti Saf (sustainable aviation fuels). Dal 2024 con il progetto Eni Biojet a Gela se ne produrranno 150 mila tonnellate all’anno, che equivalgono all’intero mercato potenziale italiano.

    Meno petrolio e zero lavoro

    L’altro lato oscuro della conversione del petrolchimico rimane il nodo sull’occupazione. La trasformazione green doveva essere solo una parte del protocollo firmato al ministero dello Sviluppo Economico nel 2014 da Regione Siciliana, Comune di Gela, sindacati, Confindustria ed Eni. L’obbiettivo era quello di attrarre nel sito industriale bonificato nuove imprese per ristabilire e incentivare l’occupazione.

    Giusto per dare qualche dato: fino agli anni ’80 nello stabilimento lavoravano 10mila persone, nel 2015 a chiusura definitiva degli impianti ne erano rimasti mille, ma solo 380 hanno trovato posto nella nuova raffineria riconvertita; per gli altri prepensionamento o delocalizzazione al Nord. Anche l’indotto versa in condizioni emergenziali, con altre 1.100 persone, delle quali 450 edili, che fino ad oggi hanno mantenuto il lavoro con la costruzione dei nuovi impianti e con la dismissione di quelli chiusi; ma che a lavori finiti si ritroveranno in esubero.

    Come si può immaginare, il piano sopracitato di attirare nuove imprese è andato in fumo. Nessun interesse, tranne quello di un’azienda francese che conta però 44 assunzioni, briciole.

    Una soluzione ci sarebbe: c’è, infatti, chi potrebbe lavorare nell’enorme numero di bonifiche che Eni è stata condannata a compiere. Dopo otto anni, dei 2,2 miliardi compresi nel protocollo sull’area industriale di Gela ne sono stati spesi 1,2; con compreso sequestro da parte del Tribunale della società di Eni che doveva occuparsi delle bonifiche.

    Petrolio, palma, ricino… sempre la stessa storia

    Insomma, la città di Gela rimane – sotto la morsa di Eni – necessariamente legata al petrolio, allo sfruttamento e alla disoccupazione. La presenza di Eni sulla zona, con il bene placido dello Stato italiano, continua da decine di anni a condannare alla morte questa disgraziata città.
    E che Gela, come la Sicilia tutta, deve essere condannata allo sfruttamento e al colonialismo estrattivista ce lo conferma anche la neonominata Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ieri durante il suo discorso alle Camere ha messo ben in chiaro alcuni punti: sfruttare il più possibile le riserve di Gas nei mari; dare il liberi tutti alle imprese che vogliono costruire impianti di rinnovabili.
    All’assenza del gas russo Meloni intende sopperire anche attraverso un aumento della produzione nazionale di gas, perché «i nostri mari sono ricchi di giacimenti di gas che abbiamo il dovere di sfruttare appieno». In realtà le stime più ottimistiche ci dicono che nel sottosuolo italiano ci sarebbero 350 miliardi di metri cubi di gas naturale, che basterebbero a garantire l’attuale consumo di gas per appena 5 anni.
    Sulle rinnovabili abbiamo già detto abbastanza: le autorizzazioni a occhi chiusi, senza valutare impatto ambientale o destinazione dell’energia o che prevedono la concessione di terreni agricoli per l’istallazione di parchi fotovoltaici, lo ripetiamo, non hanno nulla di sostenibile. Anzi, continuano a perpetrare il modello estrattivista e contribuiscono alla desertificazione dei suoli e alla distruzione delle piccole economie locali. Ma la Meloni ha reso ben chiaro qual è il faro dell’agire politico di questo Governo, il suo motto è “non disturbare chi vuole fare”. Non disturbare le aziende, le multinazionali dell’energia, i colossi del Gas e del fossile.
    Entrambi i presupposti vedono la nostra isola come hub da cui estrarre valore, e come al solito, in cui non lasciare nulla se non inquinamento e miseria. Tocca organizzarsi, dentro e contro la crisi energetica e sociale, per affermare un nuovo modello di sviluppo, lontano dalle logiche di accumulazione e sfruttamento, lontano dai diktat e dalle necessità imposte dallo Stato italiano. Economia circolare, filiere corte, autoproduzione, ecologia, comunità energetiche, lottando per l’indipendenza economica, politica, sociale e culturale della Sicilia.


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