Pubblichiamo l’intervento introduttivo del Professor Elio Di Piazza alla conferenza internazionale “Percorsi di Indipendenza in Europa” svoltasi il 30 marzo presso L’Assemblea Regionale Siciliana.
Nei secoli, le interpretazioni e le riletture del Vespro sono state le più disparate e in certi casi le più fantasiose. Tra queste, quella che ancora ai nostri giorni risulta prevalente risale alla seconda metà del XIX secolo. Mi occuperò qui delle ragioni che stanno alla base di questa rilettura. Dopo il 1861, si considerò necessario fondare una storia italiana – un passato comune – che potesse operare come strumento identitario in un paese fortemente diviso sul piano sociale, economico e culturale. Avendo ben presente questo obiettivo, le istituzioni politiche e formative della nuova Nazione avviarono un’opera di recupero di episodi storici locali, che tuttavia erano tra loro disomogenei e non riconducibili a matrice nazionale. Rompendo i naturali vincoli di territorialità, quegli episodi (tra cui il Vespro) furono forzatamente inglobati in una storia d’Italia nazional-patriottica, solo all’apparenza omogenea e coerente.
La rilettura italica del Vespro
Quanto accadeva nell’Italia del secondo Ottocento si era già verificato nel momento di formazione degli Stati-nazione europei. Così fu in Inghilterra per il mito del buon governo di re Artù e dei suoi cavalieri, utilizzato per giustificare la colonizzazione. Così nella Francia del XVIII secolo, dove la figura di Giovanna d’Arco servì a coprire il militarismo con un alone di religiosità. Così fu per la Federazione del Secondo Reich, che si mostrava al mondo nella veste mitologica dei Nibelunghi e di Sigfrido. Allo stesso modo nell’Italia degli anni che seguirono il 1861 si dava l’avvio a una costruzione mitografica capace di esaltare valori come quelli dell’eroismo, della religiosità e della nazionalità. In quella distorta ricostruzione storica si inseriva, ad esempio, la battaglia di Lepanto in cui la Spagna e l’alleata Repubblica di Venezia sconfissero l’impero ottomano, la battaglia di Legnano in cui il Papato ebbe la meglio sul Barbarossa; episodi storici, come è facile comprendere, piegati a rappresentare uno spirito nazionalistico nei fatti inesistente. In un tale calderone di miti contraffatti finì il Vespro siciliano, il cui travisamento mirava in ultima istanza a proclamare l’italianità dei siciliani.
Il momento più opportuno per promuovere la rilettura italica del Vespro si presentò appena due decenni dopo l’impresa di Garibaldi, nel 1882, anno in cui ricorreva il VI centenario della rivoluzione siciliana avvenuta, appunto, nel 1282. Il giovane Stato italiano volle riconoscere ufficialmente il “rebellamentu” dei siciliani – a condizione, però, di ridefinirne i tratti caratteristici, ridisegnando a proprio uso e consumo la cornice storica e, soprattutto, oscurando il ruolo rivoluzionario svolto dal popolo siciliano. Al fine di porre il Vespro al servizio del neo-patriottismo savoiardo, pertanto, veniva occultato il suo carattere più autentico. A quest’opera di travisamento si adoperarono con solerzia i promotori dei festeggiamenti ufficiali del VI Centenario.
Dobbiamo ricordare che nei due decenni precedenti il 1882 i siciliani, delusi dagli esiti sfavorevoli dell’unificazione, erano più volte insorti contro le strutture politiche e militari italiane; la risposta repressiva era stata spietata: dalla strage di Bronte, alle migliaia di morti del 1866 in seguito all’insurrezione del 7 e 1/2, dalla repressione delle rivolte contadine alla violenta persecuzione dei renitenti alla leva – un fiume di sangue con cui si inaugurò in Sicilia la nascita dello Stato italiano.
Il VI centenario
Per queste ragioni, nel 1882, onde evitare un risveglio dei rancori non ancora assopiti, il Comune di Palermo e il Governo nazionale decisero di strappare dalle insidiose mani del popolo le celebrazioni per il VI centenario, e organizzarle a proprio vantaggio.
Il Comune, guidato da Emanuele Notarbartolo, patrocinò la commemorazione e nominò un Comitato Promotore nel quale confluirono intellettuali come l’archeologo Antonio Salinas e l’architetto Ernesto Basile, insieme ad alcuni esponenti della destra liberale che sedevano in Parlamento; ovviamente non potevano mancare i filo-garibaldini, come Francesco La Colla che ricoprì la carica di segretario. A presiedere il Comitato fu chiamato Francesco Crispi, un politico d’origine siciliana che, com’è noto, si è macchiato di crimini imperdonabili contro i siciliani. Crispi era, inoltre, un riconosciuto voltagabbana e opportunista: seguace di Mazzini e repubblicano negli anni ‘50, fedele di Garibaldi nei ’60 e infine convinto monarchico nei ’70 e ‘80. Sotto la sua deleteria azione, il racconto del Vespro siciliano subì un’indegna metamorfosi.
Il Comitato Promotore, rotti gli indugi di quanti a Roma temevano di alterare i rapporti con la Francia, avviò i lavori lanciando un appello farisaico ai ‘fratelli operai’ e ai ‘fratelli lavoranti’ affinché fosse cancellata dai festeggiamenti «… ogni lontana idea di regionalismo». A dimostrazione del programma di falsificazione che era pronto ad adottare, il Comitato coniò una medaglia commemorativa dall’inequivocabile valore simbolico; la medaglia portava impressa su una faccia la chiesa di S. Spirito, nei pressi della quale il Vespro ebbe inizio, e sull’altra una regale fanciulla – raffigurante l’Italia – saldamente appoggiata ad uno scudo su cui era impressa la Triscele. L’intreccio tra Vespro e Unità nazionale veniva esplicitato ad ogni occasione, come non mancò di raccomandare il Comitato: «Tutta la Sicilia… festeggerà con calma e dignità le due gloriose date della sua storia: il 1282 e il 1860». Una malcelata intimazione finalizzata a placare i siciliani e condurli nel solco della Nazione.
La riscrittura della storia
Emblematica della italianizzazione del Vespro è l’opera di Giuseppe Verdi, I Vespri Siciliani, con cui il Comitato Promotore avrebbe desiderato aprire i festeggiamenti. L’opera sarebbe dovuta andare in scena nel nuovo Teatro Massimo costruito, ironia della sorte, in una piazza ricavata dal vuoto causato dai pesanti bombardamenti contro gli insorti del 7 e 1\2. I propositi del Comitato alla fine non andarono in porto, sia perché i lavori di completamento del teatro erano stati sospesi, sia perché Verdi aveva declinato l’invito a partecipare. In ogni caso, resta il fatto che il libretto dell’opera verdiana era stato scritto da due francesi (Eugène Scribe e Charles Duveyrier) e che, per assurdo, Scribe considerava il Vespro una leggenda e si spingeva fino a negare che fosse mai accaduto. In contrasto con ciò che sostenevano gli storici più informati, nel libretto si metteva in primo piano la figura di Giovanni da Procida, cadetto di una famiglia nobiliare del napoletano, presentandolo come il vero ispiratore e organizzatore degli eventi. La scena era occupata prevalentemente dai nobili, siciliani e angioini, laddove il popolo, relegato sullo sfondo, veniva presentato come una folla rozza, sanguinaria e impulsiva. Come se tutto ciò non bastasse, diverse rappresentazioni dell’opera verdiana, non hanno esitato a collegare anche scenograficamente Vespro e Unità nazionale: basti pensare al fatto che recentemente il Teatro Regio di Torino (2010) e di Parma (2011) la Scala di Milano (2013 e 2014) a chiusura dell’opera hanno scelto, infischiandosene di ogni attendibilità storica, di far sventolare ai rivoltosi siciliani il tricolore.
Nei giorni che precedettero i festeggiamenti, apparve un numero straordinariamente elevato di scritti, anche brevi, che trattavano del Vespro, della sua storia, della sua attualità; si pubblicarono opere creative, poesie, racconti, testi teatrali. Tra questi ne apparve uno, a firma dei mazziniani Bovio Pantano e Rapisardi; fuori dal coro essi ribadivano i contenuti della Guerra del Vespro di Michele Amari, e ovviamente tuonavano contro gli organizzatori delle celebrazioni per aver nascosto la natura popolare della rivoluzione; si trattò, però, di un caso isolato. La maggior parte di quelle pubblicazioni era allineata e in molti casi stimolata dal Comitato Promotore. Questo caldeggiò, inoltre, la ristampa di cronache del tempo che molti storici avevano già definito di parte e inattendibili; tra questi la Historia Sicula di Niccolò Speciale, uno storico al soldo degli aragonesi, e Lu rebellamentu di Sichila che avvalorava la tesi del complotto, ampiamente screditata. Come aveva scritto Michele Amari: «I contemporanei del Vespro facilmente potevano fondere i due periodi, cioè il movimento spontaneo del popolo palermitano e la macchinazione de’ baroni, e ritenere come congiura un fatto…cagionato perché gli animi erano disposti alla rivolta». Nonostante ciò, gli organizzatori del Centenario accreditarono la tesi della congiura, tramandando ai posteri (accademici compresi) una versione che non regge al confronto dei fatti e, soprattutto, sottrae al popolo un potente episodio identitario.
A conclusione dei lavori del Comitato, il 31 marzo 1882 si diede avvio alle celebrazioni che andarono avanti per 3 giorni, con la posa di targhe commemorative, gare podistiche, giochi pirotecnici e, dulcis in fundo, la presenza di Garibaldi. Era stato invitato da Crispi a Palermo nonostante fosse ormai vecchio e sofferente (sarebbe morto due mesi dopo). Garibaldi arrivò alla stazione di Palermo dopo un viaggio di quattro giorni; sfinito dalla fatica sostenuta, dovette lasciare la stazione su una portantina, deludendo quanti erano accorsi a riceverlo. L’indomani il “Corriere della Sera” scrisse «l’avvenimento, come potete immaginarvi, non è la commemorazione del Vespro ma la venuta di Garibaldi». Il Vespro regrediva al ruolo di pretesto, come risultò chiaro anche dalle parole del senatore Perez che, fuori della chiesa di Santo Spirito restaurata per l’occasione, concludeva il suo discorso inaugurale gridando «Viva l’Italia, Viva Re Umberto, viva Garibaldi».
Riscattare il Vespro
La storia del Vespro si trasformava in una favola, nella quale i nobili facevano la parte del principe azzurro e il popolo quella della bella addormentata. La più eroica e radicale insurrezione siciliana veniva strappata dalle mani dei suoi veri esecutori. Il carattere popolare, repubblicano e municipalista fu cancellato, e non rimase così alcuna traccia del conflitto di classe, unico nella storia dei paesi europei di quei tempi, tra popolo e aristocrazia. Giovanni Bovio, introducendo il bel saggio di Edoardo Pantano intitolato Il Vespro e i Comuni, apparso a Catania alla vigilia delle celebrazioni, così scriveva: «Ci fu vera gloria, ma di popolo; ci fu un gran fine, non di vendetta: che dietro la strage salì alto e concorde il grido che salutava il Comune libero. Noi vogliamo vedere tra le nazioni rispettata l’indipendenza e nella Sicilia indipendente libero il Comune».
L’autogoverno popolare fondato sul municipalismo delle Communitates Siciliae, è la più genuina eredità del Vespro; eredità che gli organizzatori del VI Centenario hanno tentato di cancellare per sempre. Per queste ragioni, e concludo), credo che tra i compiti del movimento indipendentista siciliano vada inserito quello di riportare alla luce, riscattandola dalle mani deformanti del colonialismo, la più grandiosa lotta di liberazione che il nostro popolo abbia mai combattuto e vinto.
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