Il 3 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge costituzionale per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio.
Primo passaggio di un iter che si profila come lungo e incerto – nel quale non si escludono modifiche sostanziali al ddl attualmente in circolazione – ma che, se dovesse essere portato a termine, sarebbe destinato a modificare i rapporti di forza non soltanto all’interno del Parlamento, bensì anche tra la Sicilia e lo Stato italiano. Proprio rispetto a quest’ultimo punto, crediamo sia importante soffermarci su questa riforma, con l’obbiettivo di inquadrarla all’interno del disegno politico dell’attuale Governo che, da un lato, mira a concentrare risorse nei centri produttivi e finanziari dello Stato attraverso proposte come l’autonomia differenziata e, dall’altro, a accentrare il potere nelle proprie mani – indebolendo, di fatto, la Sicilia sia politicamente che economicamente.
Cosa prevede la riforma
I punti più salienti e discussi della riforma costituzionale riguardano l’enorme accentramento di potere nelle mani del Presidente eletto e della coalizione che lo sostiene, a cominciare dall’elezione in contemporanea – lo stesso giorno, sulla stessa scheda elettorale – di Capo del Governo e Parlamento. La vittoria garantirebbe alla coalizione a sostegno del futuro Premier un premio di maggioranza del 55% in entrambe le Camere – eventualità, questa, che non accade in nessuna Repubblica presidenziale, il cui rapporto tra potere esecutivo e legislativo è sempre bilanciato da una serie di pesi e contrappesi che garantiscono la possibilità di opposizione (vedasi il caso degli Stati Uniti, dove il Presidente Biden si trova attualmente in minoranza alla Camera).
Vi è poi la cosiddetta legge “anti-ribaltone” che prevede, in caso di dimissioni o di sfiducia del Presidente eletto, che questi possa essere sostituito soltanto da un altro parlamentare della maggioranza, con l’obiettivo di portare a termine il programma del Premier uscente.
La riforma si inserisce nel solco di un processo di lungo periodo della politica italiana, in cui la crisi della rappresentanza ha portato i leader politici ad avere un maggior peso rispetto ai loro stessi partiti. Parallelamente, negli ultimi decenni si è assistito a un graduale, ma altresì sostanziale, esautoramento del Parlamento a vantaggio degli esecutivi, avvenuto a colpi di decreti legge e riforme fatte passare a forza di voti di fiducia.
Il cuore della riforma consiste proprio nell’indebolimento de facto del Parlamento a vantaggio di un super Premier, che godrebbe non solo della forza concessagli dalla legittimità popolare, ma sì troverebbe anche a capo di un esecutivo sempre in maggioranza. Per di più, come garantito dalla legge anti-ribaltone, la sfiducia diverrebbe una minaccia quasi inesistente e, dunque, il governo difficilmente spodestabile prima della fine del mandato.
Autonomia e premierato: due facce della stessa medaglia
La Meloni stessa ha dichiarato come l’autonomia differenziata e la riforma costituzionale siano intrinsecamente collegate: secondo la Premier, la maggiore autonomia concessa alle regioni va accompagnata dal rafforzamento del potere centrale. Va anche aggiunto che la realizzazione delle due riforme, cavalli di battaglia rispettivamente di Lega e Fratelli d’Italia, è necessaria nell’ottica del compromesso tra i due principali partiti di governo, indispensabile per la tenuta dell’esecutivo.
Tra l’altro, il lancio in grande stile del premierato ”soft” (termine quanto mai inappropriato per una riforma di questa portata) avviene in una fase in cui si stanno presentando non pochi problemi in merito all’attuazione dell’autonomia differenziata.
A dispetto di quanto stabilito nel ddl Calderoli, si sta rivelando impossibile individuare i Lep (i livelli essenziali di prestazione, cioè gli standard comuni a tutte le regioni nei settori pubblici in cui si richiede l’autonomia) senza che questi vengano finanziati con fondi statali – cosa esplicitamente vietata dal decreto stesso.
In altre parole, o verranno fissati degli standard minimi che si limitano a certificare le disuguaglianze preesistenti in tema di istruzione, sanità o trasporti – con buona pace degli svantaggi di regioni come la Sicilia – oppure il Governo dovrà trovare il modo di finanziare i Lep con soldi che non ha.
In questo quadro si inserisce dunque la riforma costituzionale. Lo sviluppo di un potere di governo incontrastato sancirebbe il totale asservimento agli interessi della borghesia nazionale, avendo come diretta conseguenza la maggior influenza nelle scelte governative da parte di grandi imprenditori e colossi finanziari, i cui interessi economici sono localizzati nei centri produttivi del Nord-Italia.
La cristallizzazione del sottosviluppo
Di fatto, il sottosviluppo economico si costituzionalizzerebbe, consentendo agli esecutivi futuri di far passare rapidamente misure contro gli interessi dei siciliani in un quadro in cui la capacità di opposizione sarebbe fortemente limitata. Parallelamente, la nascita e l’affermarsi nell’isola di forze politiche slegate dai grandi partiti nazionali e dai loro interessi sarebbe frenata dalla grande difficoltà, per queste, di poter trovar posto in Parlamento, con un meccanismo elettorale che, proprio come nelle maggiori repubbliche presidenziali esistenti, spinge verso il voto utile e il bipolarismo.
È possibile dunque individuare un doppio legame tra la riforma costituzionale e l’autonomia differenziata: il primo è il necessario compromesso politico tra i due partiti di governo; il secondo, la comune visione politica prospettata da entrambe le riforme che, toccando una l’aspetto politico, l’altra quello finanziario, mirano a cristallizzare l’accentramento del potere e delle risorse in una specifica parte dello Stato, mettendo al bando, di fatto, la possibilità economica e politica di rivalsa delle altre regioni.
Nell’eventualità che questa riforma possa essere portata avanti, seppur con probabili modifiche e mitigazioni, eventualmente giungendo a referendum, è necessario preparare un’analisi e un’opposizione che guardino oltre ai cambiamenti dell’assetto istituzionale a cui la riforma porterebbe e che non si limitino a tuonare contro l’attacco alla democrazia o a disquisire su quale sia la miglior forma di governo possibile. Servirà, invece, svelare chiaramente il progetto politico complessivo del governo, guardando all’impatto reale della riforma e delle sue misure complementari sulla Sicilia e sulle vite dei siciliani.
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