Uno dei temi più caldi e discussi dalla stampa e dalla politica internazionale negli ultimi mesi riguarda l’alleanza tra il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e il multimiliardario Elon Musk, amministratore delegato di SpaceX, Tesla e proprietario di Twitter/X. Il legame tra i due, che va oltre i 119 milioni di dollari di finanziamento gentilmente elargiti da Musk per la campagna elettorale del tycoon e l’incarico governativo che l’imprenditore sudafricano si appresta a ricoprire¹, è stato oggetto di ammirazione da parte delle destre europee e di forti critiche provenienti da sinistra.
Andare al cuore del problema
Fiumi d’inchiostro sono stati spesi per criticare o esaltare questa alleanza e molteplici sono le rappresentazioni costruite ad hoc della figura di Musk e della sua influenza nella politica a stelle e strisce e non solo: «razzista» e «fascista» per alcuni; «baluardo contro la cultura woke e la censura» per altri. Il caso mediatico Musk dimostra, come se ce ne fosse ulteriore bisogno, quanto il dibattito pubblico sia incancrenito in una dicotomia destra versus sinistra portata avanti da un ceto giornalistico e politico che, per incapacità o per colpevole volontà, non riesce mai a mettere a fuoco il cuore dei problemi.
Le diatribe sull’orientamento ideologico di Musk fanno molto più scalpore del processo politico di lungo corso, ben più serio e preoccupante, in cui non solo il patron di Tesla, ma anche i leader delle principali Big tech statunitensi – da Meta ad Amazon, passando per Microsoft, Apple e Google – sono tirati in ballo. È cosa nota, infatti, che nell’ultimo decennio gli apparati statunitensi abbiano portato avanti un serrato braccio di ferro con le principali multinazionali Usa, allo scopo di piegare i loro interessi economici a quelli geopolitici e strategici di Washington, i quali prescindono dalla propaganda o dagli obiettivi a breve termine dell’amministrazione Trump. Un conflitto di potere che ha portato a un riequilibrio dei rapporti di forza in favore del governo degli Stati Uniti, a danno dell’autonomia e, in alcuni casi, anche dei profitti delle aziende dell’informatica e della comunicazione, in nome della sicurezza nazionale e della conservazione dell’egemonia globale yankee nello scontro con le potenze rivali, Cina su tutte.
Ciò non significa negare che esista una comunanza di interessi particolari tra Musk e Trump – e se per questo anche con Zuckerberg e non solo, recentemente salito sul carro del vincitore, nonostante questi qualche anno fa lo definisse senza peli sulla lingua un «traditore della patria» –, ma inquadrare tale contingenza all’interno delle necessità strategiche degli Stati Uniti, sostanzialmente indifferenti al colore politico di chi si trova al governo. Nello specifico, l’oggetto del contendere ruota attorno a due fattori decisivi nelle guerre che gli Usa si trovano e troveranno ad affrontare, più o meno fredde che siano:
1. La raccolta e la gestione della spaventosa mole di dati e informazioni più o meno sensibili che le Big tech della comunicazione acquisiscono ogni giorno da utenti di tutto il mondo, sui quali gli Stati Uniti vogliono mantenere un controllo esclusivo per poterne disporre a proprio piacimento per studiare e colpire alleati e nemici, impedendo allo stesso tempo che questi siano nella condizione di poter ricambiare;
2. L’apporto militare che le avanzate tecnologie delle aziende Usa possono mettere al servizio dell’esercito, dalle operazioni di spionaggio all’implementazione dell’IA in armamenti di ultima generazione fino agli attacchi informatici.
Un po’ di storia: Washington vs Big tech
«L’FBI vuole che realizziamo una nuova versione del sistema operativo dell’iPhone, aggirando alcune importanti funzioni di sicurezza, installandolo poi su un telefono recuperato durante le indagini. Nelle mani sbagliate, questo software – che a oggi non esiste – potrebbe consentire di sbloccare qualsiasi altro iPhone in possesso di chiunque. L’FBI potrebbe descrivere in modi diversi questo strumento, ma non fatevi ingannare: costruire una versione di iOS che bypassa la sicurezza in questo modo creerebbe senza dubbio un precedente. E mentre il governo potrebbe dire che il suo utilizzo sarebbe limitato a questo caso, non c’è modo di garantire che sia così. […] Il governo potrebbe estendere questa violazione della privacy e chiedere ad Apple di costruire un software di sorveglianza per intercettare i tuoi messaggi, accedere alle tue cartelle cliniche o dati finanziari, tracciare la tua posizione o persino accedere al microfono o alla fotocamera del tuo telefono a tua insaputa. Opporsi a questa richiesta non è qualcosa che prendiamo alla leggera. Ma sentiamo il dovere di esprimerci di fronte a ciò che vediamo e consideriamo un eccesso da parte del governo degli Stati Uniti».
Il testo sopraccitato è un estratto della lettera pubblicata nel 2016 da Tim Cook, CEO di Apple, sul sito aziendale, nella quale esprimeva il rifiuto della compagnia nel creare una nuova versione del sistema operativo iOS in grado di aggirare la crittografia dei dati. Il dipartimento di Giustizia aveva presentato istanza formale ad Apple affinché collaborasse con l’FBI, allo scopo di poter accedere ai contenuti dell’iPhone 5C appartenente a uno degli autori dell’attentato terroristico di San Bernardino, in cui morirono 14 persone. Come è evidente, Apple si rifiutò di concedere al governo degli Stati Uniti uno strumento i cui scopi sarebbero potuti andare ben oltre la ricerca di informazioni sui terroristi. Sebbene gli USA riuscirono comunque ad accedere al dispositivo affidandosi a due società specializzate (una israeliana, l’altra australiana), tale avvenimento è sintomatico di come i colossi yankee, almeno alla metà degli anni 10’, non fossero disposti a perdere la propria autonomia nemmeno in nome della lotta al terrorismo, un tema storicamente pregnante di carica ideologica negli States.
La scelta di Apple, dettata dalla conservazione dei propri interessi molto più che dal nobile desiderio di preservare la privacy dei propri utenti, va inquadrata tenendo conto della volontà della compagnia di non voler intaccare la propria immagine di azienda attenta alla protezione dei dati, e può essere compresa solo alla luce dell’onda lunga del datagate.
Il polverone mediatico sollevatosi nel 2013 a seguito della scoperta di operazioni di spionaggio condotte dall’NSA (National Security Agency) a danno non soltanto dei rivali degli USA, ma anche degli Stati vassalli della Nato – vedasi il caso delle intercettazioni al telefono di Angela Merkel, all’epoca cancelliere tedesco – complicò e non poco i rapporti tra le Big Tech e le nazioni europee e non solo. Dei documenti pubblicati dal Guardian, infatti, attestavano come l’NSA avesse versato milioni di dollari nelle casse di nove aziende a stelle e strisce, tra cui Facebook, Google, Microsoft, Yahoo! e la stessa Apple, per il loro contributo al programma di sorveglianza Prism.
La fuoriuscita di notizie portò a delle ripercussioni economiche non indifferenti per le multinazionali coinvolte, la cui immagine di trasparenza e neutralità è stata fortemente minata. Da quel momento, per un lasso di tempo breve ma altresì significativo, i colossi dell’hi-tech statunitensi hanno tentato di smarcarsi dal controllo di Washington per preservare il proprio giro d’affari.
Aquila contro Dragone per il controllo dei sette mari
La capacità del governo degli Stati Uniti di influenzare gli interessi delle Big-Tech ha ritrovato nuova linfa vitale nello scontro contro Cina e Russia. Nel caso della Cina, la competizione tecnologica passa – tra le tante cose, non ultima la vicenda TikTok, vietato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti il 19 gennaio – dal controllo di un settore vitale per la raccolta dei dati, che ha anche costretto le aziende a stracciare contratti multimilionari: la competizione per la gestione dei cavi sottomarini in fibra ottica. Tali infrastrutture permettono oltre il 95% delle comunicazioni online², e sono state recentemente oggetto di un’attenzione del tutto nuova da parte della stampa, per via dei numerosi sabotaggi compiuti dalle navi russe negli ultimi anni. Neanche a dirlo, gli Stati Uniti sono leader nella progettazione, nella costruzione e nella messa a terra dei cavi, grazie a importanti investimenti sia pubblici che privati, che permettono agli Usa di poter esercitare uno stretto controllo sul flusso dei dati, ed è quasi banale evidenziare come cerchino in tutti i modi di impedire che la Cina possa fare altrettanto.
Si prenda in considerazione un esempio utile per il nostro discorso. Alla fine del 2016 Google e Meta annunciarono la costruzione del PLCN, un cavo sottomarino in fibra ottica dalla lunghezza di 13.000 chilometri che, passando attraverso l’Oceano Pacifico, avrebbe costituito il primo collegamento diretto tra gli Stati Uniti e Hong Kong. Dopo quattro anni di lavori e una spesa di centinaia di milioni di dollari, il cavo venne messo a terra, ma la Federal Communications Commission degli Stati Uniti, dietro pressioni del Team Telecom (un comitato composto da rappresentanti dei dipartimenti governativi Usa di Giustizia, Sicurezza Nazionale e Difesa) negò l’autorizzazione per la messa in funzione. Il motivo? Tra i partner di Google e Meta figurava la Pacific Light Data Communication, società che nel 2017 fu poi venduta a Dr Peng Telecom & Media Group, compagnia di telecomunicazioni privata con sede a Pechino, molto vicina a Huawei e al governo cinese, al quale fornisce tecnologia all’avanguardia per i sistemi di sorveglianza.
Gli Stati Uniti temevano che la creazione di un collegamento diretto del traffico Internet con la Cina avrebbe aumentato il rischio di intercettazioni e sabotaggi cyber, oltre che contribuire al progetto cinese di trasformare Hong Kong nel nuovo hub digitale del continente asiatico.
Il caso qui riportato non ha rappresentato l’unica occasione in cui gli Stati Uniti si sono messi di traverso, impedendo alle multinazionali a stelle e strisce di tessere accordi commerciali con aziende cinesi potenzialmente pericolosi per «la sicurezza nazionale».
Guerra in Ucraina: la svolta
Il contributo che le multinazionali yankee hanno fornito all’Ucraina dall’inizio della guerra con Mosca è cosa assai nota, anche se sovente se ne sottostima il valore. Meta ha permesso sui propri social la pubblicazione di contenuti che incitano alla «morte degli invasori russi», con il conseguente blocco di Instagram in Russia e la perdita per l’azienda di quasi 5 milioni di dollari al giorno dai mancati introiti pubblicitari³.
Poche ore prima che le truppe russe oltrepassassero i confini ucraini, il Threat Intelligence Center di Microsoft rivelò un software capace di eliminare i dati dei computer posti sotto attacco. Il bersaglio? Le principali istituzioni politiche e finanziarie dell’Ucraina. Microsoft avvertì immediatamente il governo ucraino, e agì subito per fermare la minaccia, impedendo il blackout totale dei computer dello Stato, che avrebbe reso impossibili le comunicazioni d’emergenza una volta iniziata l’invasione. Nei giorni successivi Brad Smith, presidente di Microsoft, rivendicò l’accaduto e la stretta collaborazione con l’Ucraina al servizio del governo degli Stati Uniti e della Nato. Parallelamente, Amazon e Microsoft contribuirono ad una delle evacuazioni di dati più rapide della storia. Agirono con il governo di Kiev per spostare i dati contenuti nei data center Ucraini – presi appositamente di mira dai missili russi già nelle prime ore del conflitto – in più sicuri cloud.
Altrettanto importante fu l’appoggio offerto da Elon Musk, sebbene all’epoca alla guida degli Stati Uniti non vi fosse «l’amico» Donald Trump, per di più accusato di aver tentato un colpo di Stato appena 16 mesi prima, a dimostrazione di come i rapporti tra privati e singole personalità politiche passino in secondo piano rispetto agli interessi strategici. L’imprenditore sudafricano, infatti, ha permesso alle forze armate ucraine di servirsi del sistema satellitare Starlink, garantendogli la possibilità di aggirare la distruzione delle infrastrutture utili alla comunicazione operata dalle truppe russe.
La guerra in Ucraina ha rappresentato un punto di non ritorno nello schieramento politico delle multinazionali Usa, oggi apertamente dalla parte del governo di Washington, in barba all’equidistanza rivendicata solo 10 anni fa. Pertanto, nella fase storica che ci troviamo ad attraversare, caratterizzata dalla messa in crisi dell’egemonia globale Usa, in cui la posta in palio è la costruzione di un mondo multipolare, la ritrovata vicinanza tra Donald Trump e i CEO dei colossi hi-tech va letta alla luce di un disegno più grande.
Trump e Zuckerberg: quasi amici
«Il rischio di consentire al Presidente di continuare a usare il nostro servizio in questo momento è semplicemente troppo grande. Per questo estendiamo il blocco che abbiamo deciso sui suoi account Facebook e Instagram a tempo indeterminato e per almeno le prossime due settimane, fino a quando una pacifica transizione di potere sarà completata». (Gennaio 2021)
«Ci libereremo dei fact-checker e li sostituiremo con note della comunità simili a X (ex Twitter), a partire dagli Stati Uniti». (Gennaio 2025)
Le due dichiarazioni qui riportate sembrerebbero pronunciate da due persone profondamente diverse per orientamento e visioni politiche. Invece, sono uscite dalle stesse labbra, quelle di Mark Zuckerberg, a quattro anni di distanza. Sembra passata un’era geologica da quando il CEO di Meta oscurò i profili social del Presidente uscente, reo di utilizzarli per fomentare la rivolta culminata nell’assalto di Capitol Hill. Oggi Zuckerberg, come fulminato sulla via di Damasco, sceglie di attuare una riduzione delle politiche di moderazione dei contenuti molto più in linea con la visione del tycoon, che ha accolto la notizia affermando: «penso che Meta abbia fatto molta strada, l’uomo Zuckerberg è impressionante».
Musk, dal canto suo, ha commentato la vicenda definendola «cool». Alle comunicazioni via social è seguito un incontro dal vivo. Zuckerberg, alla medesima maniera dei CEO delle principali aziende a stelle e strisce, tra cui Jeff Bezos e Tim Cook, storicamente vicini al Partito Democratico, è volato alla corte di Trump, nella residenza di Mar-a-Lago in Florida, per portare i suoi omaggi al Presidente eletto, insieme a una cospicua donazione di un milione di dollari per la cerimonia inaugurale del 20 gennaio.
Di primo acchito verrebbe da pensare che Zuckerberg – e non solo lui – abbia aderito ai valori della destra repubblicana, per la quale non ha mai speso parole al miele, ma la vera ragione della ritrovata amicizia tra il tycoon e i patron delle Big Tech tutti va ricercata nell’alleanza contro un nemico comune.
Giganti yankee all’assalto dell’UE
Nel mirino delle multinazionali Usa vi sono, tra gli altri, il Digital Markets Act e il Digital Services Act, due provvedimenti varati dall’Unione Europea allo scopo di limitare il monopolio de facto creato dai giganti tecnologici statunitensi, e imporre regole più trasparenti sulla gestione e sulla compravendita dei dati degli utenti, dietro i quali si generano profitti miliardari.
L’ostilità dell’UE nei confronti delle compagnie a stelle e strisce non è di certo una novità, e il datagate non ha contribuito a distendere i rapporti. Mark Zuckerberg sostiene che negli ultimi 20 anni l’UE abbia imposto alle aziende tecnologiche americane più di 30 miliardi di dollari in multe, non ultima la sanzione di 797 milioni di euro inflitta lo scorso novembre a Meta per aver violato le regole antitrust europee. «Lavoreremo col presidente Trump per respingere i governi di tutto il mondo che se la prendono con le società americane e premono per una censura maggiore» – ha poi aggiunto il patron di Meta.
Dulcis in fundo, attraverso l’applicazione del Dsa, la Commissione Europea sarebbe pronta a imporre sanzioni durissime (fino all’8% del fatturato globale⁴) a tutti i colossi informatici. Già nei mesi scorsi numerose grandi aziende, tra cui Meta, Google e Spotify, avevano reso pubblica una «lettera aperta» in cui si prendeva di mira il GDPR (General Data Protection Regulation) in tutte le sue implicazioni. Nel caso dell’IA, inoltre, i firmatari ritengono che l’attuale quadro normativo crei incertezza sui tipi di dati che possono essere legalmente utilizzati per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale, ostacolando l’innovazione e la produttività.
I magnati delle aziende informatiche si sono quindi rivolti a Trump nella speranza che eserciti pressioni sull’Unione Europea, affinché modifichi la sua politica digitale e si astenga dall’applicare nuove sanzioni. Il 14 gennaio, in effetti, il Financial Times ha riportato che gli uffici della Commissione Europea starebbero temporeggiando nel portare avanti le dovute indagini, per timore di innescare rappresaglie da parte del governo degli Stati Uniti. La situazione è in evoluzione, e ci potrebbero essere importanti aggiornamenti nelle prossime settimane. Ciò che è certo è che la presa di posizione di Trump sulle norme europee sarà gravida di conseguenze: il legame strategico (e asimmetrico) tra la Silicon Valley e Washington si fa sempre più stretto, e la predazione degli Usa ai danni dell’UE passa anche dal controllo delle piattaforme digitali.
Le guerre di domani partono dalla Silicon Valley
Lo scorso dicembre OpenAI ha annunciato di aver siglato un accordo con Anduril, società di tecnologie militari che produce droni, sistemi radar e missili dotati di intelligenza artificiale, allo scopo di fornire apparecchiature all’avanguardia all’esercito Usa. La decisione è arrivata in contemporanea con la pubblicazione da parte della Casa Bianca del National Security Memorandum sull’intelligenza artificiale, nel quale si indicava al Pentagono e alle altre agenzie di potenziare l’uso dell’IA in concorrenza con la tecnologia cinese.
La decisione presa da OpenAI si pone in aperta contraddizione con quanto sostenuto dalla stessa compagnia fino a poco più di un anno fa; infatti, l’azienda aveva vietato l’utilizzo dei suoi modelli per la fabbricazione di armi. Meta, dal canto suo, ha invece messo a disposizione il suo modello AI per applicazioni funzionali alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, modificando anch’essa la sua politica di divieto di impiego dell’intelligenza artificiale a scopi bellici o di spionaggio. L’azienda ha inoltre annunciato che i suoi modelli saranno disponibili anche per contractor della difesa come Lockheed Martin e Booz Allen Hamilton.
Per quanto riguarda le aziende gestite da Musk, già nel dicembre 2022 (quindi sotto l’amministrazione Biden) SpaceX presentò il programma Starshield, una nuova divisione di produzione di satelliti, basati su Starlink ma personalizzati per fare fronte alle richieste del governo a stelle e strisce. L’operazione è figlia di un accordo da 1,8 miliardi di dollari con il National Reconnaissance Office (NRO), l’agenzia Usa che gestisce la flotta dei satelliti spia – ed è rivolta a servizi militari dedicati agli Stati Uniti e ai paesi alleati. Nel lontano 2020, invece, la CIA ha siglato con Microsoft, Amazon Web Services (AWS) e altri fornitori, un contratto pluriennale noto come C2E per fornire servizi cloud alle 17 agenzie di intelligence Usa.
Questi sono solo alcuni esempi, più o meno recenti, che attestano come a partire dal 2008 – e in misura ancora più esponenziale negli ultimi anni – il finanziamento da parte del governo degli Stati Uniti nei confronti dei colossi della Silicon Valley per la realizzazione di tecnologie militari si sia fatto sempre più ingente. Si passa da 100 milioni di dollari nel 2008 a un picco di oltre 500 milioni nel 2020 messi a disposizione di Amazon, Microsoft, Google e Meta⁵. A questi bisogna aggiungere i quasi 900 milioni di dollari stanziati tra il 2021 e 2022⁶, esclusi i contratti miliardari ottenuti da SpaceX e dalle altre compagnie.
I numeri non mentono: l’alleanza tra gli Usa e le Big tech è destinata a durare, per necessità strategica del governo e perché, al momento, i finanziamenti garantiti alle aziende in funzione di un apparato bellico sempre più vorace paiono compensare, volente o nolente, le opportunità di profitto sul suolo cinese compromesse dalla competizione globale. Non è tanto l’asse Trump-Musk ad essere solido, quanto quello tra le multinazionali statunitensi e il governo.
Si prospetta un futuro di poche luci e molte ombre. Dalle drammatiche conseguenze che potrebbe comportare l’applicazione massiccia dell’IA sui teatri di guerra, al rischio sempre crescente che le popolazioni europee paghino ancora pegno per la subalternità agli Stati Uniti in manovre di bilancio lacrime e sangue. Ciò che è certo è che gli Usa hanno ottenuto, con le buone o con le cattive, l’appoggio della Silicon Valley nella sfida per la conservazione del ruolo di prima potenza indiscussa del pianeta.
Note:
¹Sabadin Vittorio, Elon Musk, il re dei social al potere con Trump in «Il Gazzettino», 8 novembre 2024.
²Deruda Antonio, Geopolitica digitale. La competizione globale per il controllo della Rete, Carocci, Roma, marzo 2024, p.16.
³Ibidem, p.65.
⁴Flora Matteo, Zuckerberg, con la svolta trumpiana vuole proteggersi dalle regole europee in «Wired», 13 gennaio 2025.
⁵Branca Giovanna, Due facce della stessa medaglia. Big Tech e industria militare in «Il Manifesto» 14 febbraio 2024.
⁶Rossi Chiara, Microsoft, Amazon e Google. Come cresce il peso delle big tech nella Difesa Usa in «Start Magazine», 22 gennaio 2024.