Sono circa 20 i casi di violenza emersi all’interno della struttura penitenziaria di Trapani, dove i detenuti in isolamento o con problemi psichiatrici e psicologici subivano ripetutamente abusi e torture.
Le parole del procuratore di Trapani sono inequivocabili: «i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina; su di loro praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile». Al momento sono 11 gli agenti penitenziari arrestati (che hanno chiesto e ottenuto i domiciliari) e 14 i sospesi.
Nel reparto dove avvenivano le violenze non erano presenti telecamere, in modo da permettere agli agenti di agire indisturbati nelle loro “azioni punitive”.
Senza farsi ingannare dalla solita retorica delle “mele marce”, di fronte a eventi come questo viene da chiedersi: qual è il ruolo delle strutture penitenziarie e della detenzione in uno Stato cosiddetto democratico?
Aldilà della falsa narrazione “riabilitativa”, costruita intorno alla necessità del carcere, è evidente come il suo ruolo sia meramente punitivo.
Le torture e le umiliazioni subite dai detenuti sono gli episodi estremi di una gestione disumana della repressione. La “normalità” per chi attraversa le strutture penitenziarie è fatta di condizioni igienico-sanitarie inesistenti, sovraffollamento e vita negata all’interno di celle minuscole.
Anche queste denunce condurranno a ben poco; per evitare gravi episodi simili bisognerebbe risalire e mettere in discussione l’intero sistema carcerario, concepito come una discarica sociale dentro la quale la salute – mentale e fisica – dei detenuti non interessa a nessuno.
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