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  • Europee 2024: Tutto cambi perché nulla cambi

    Europee 2024: Tutto cambi perché nulla cambi

    «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» sentenziava un famoso scrittore per descrivere l’atavico e teleologico immobilismo attribuito alla sua terra natia.

    Oggi, a diversi decenni di distanza da quando quelle parole furono impresse nella storia mediante l’inchiostro, risultano di forte attualità per sintetizzare quanto visto in occasione delle elezioni europee. Tra astensionismo dilagante, minaccia dell’ascesa del fascismo starnazzata ai quattro venti in molti paesi dell’Unione, graduale ingresso degli Stati UE in un’economia di guerra e totale sudditanza del Continente agli interessi strategici di Washington, una tornata elettorale preannunciata come decisiva per il futuro dell’Unione Europea si è dimostrata – a eccezione di singoli casi nazionali – banalmente ordinaria.

    Astensionismo e virata a destra

    Il primo dato che salta all’occhio è quello relativo all’affluenza, attestatosi al 51%. Com’era facilmente pronosticabile, e perfettamente in linea con il forte astensionismo che ha da sempre caratterizzato le europee, quasi un cittadino europeo su due ha scelto di non recarsi alle urne, preferendogli un weekend in spiaggia (o al lago, per tutti quei paesi che non si affacciano sul mare). Ennesima conferma del senso di disaffezione che i popoli europei provano nei confronti di un’istituzione che percepiscono come distante da sé – a cui si somma probabilmente e, per molti versi comprensibilmente, la ben poca contezza sulle responsabilità di competenza dell’Unione e sui rapporti di forza vigenti tra i partiti sovranazionali che la compongono. Non a caso, le elezioni europee sono vissute in tutti gli Stati membri come delle elezioni nazionali di medio termine, utili alle compagini politiche di ogni paese per misurare l’oscillazione del proprio consenso.

    Nulla di nuovo sotto il sole nemmeno per quanto concerne la composizione del prossimo Parlamento Europeo. Al netto del tracollo registrato dai liberali di Renew Europe, che hanno perso 23 seggi, i due maggiori gruppi, il PPE e i Socialisti & Democratici, hanno tenuto botta. I tre grandi partiti che hanno tenuto le fila del Parlamento Europeo nell’ultimo quinquennio detengono ancora la maggioranza assoluta, con circa 400 seggi sui 720 complessivi. Ciò significa che, pur non escludendo improvvisi sebbene improbabili ribaltoni nelle prossime settimane, Ursula von der Leyen si appresta a ricoprire nuovamente il ruolo di Presidente della Commissione Europea, seppur con una maggioranza più risicata di cinque anni fa.

    Veniamo dunque al tasto dolente, al motivo per cui tutti i sinceri democratici del Continente hanno patito l’insonnia nelle ultime settimane: l’avanzata inarrestabile delle super, ultra o estreme destre (a seconda dell’aggettivo che più aggradi). È davvero così? Lo spettro del fascismo si espande a macchia d’olio in Europa, dalla Francia alla Germania, passando per Italia, Austria e chi più ne ha più ne metta? Porre la questione in questi termini ci sembra francamente ridicolo: significa scivolare nella retorica allarmistica e autoreferenziale della sinistra, fare un favore alla destra e, cosa ben peggiore, non afferrare il senso della relativa crescita delle destre europee come fenomeno complesso e complessivo.L’exploit della destra in Francia, Italia e Austria alle elezioni appena trascorse va inquadrato alla luce dell’alto tasso di astensionismo che ha caratterizzato i tre paesi, e perciò ridimensionato, perché più sintomo della sfiducia della popolazione verso la politica e i partiti tradizionali che di un’infatuazione di massa verso i reazionari. Ed è qui il cuore della questione. La crisi economica e politica apertasi nel 2008, aggravatasi in seguito alla pandemia e all’inizio del conflitto russo-ucraino, ha fatto saltare il compromesso sociale che ha permesso alle forze liberali e socialdemocratiche europee di tenere lo scettro del potere per decenni. Le politiche di austerity imposte in tutta Europa, la degradazione delle condizioni socio-economiche di milioni di persone, la sempre maggiore presa di coscienza da parte del “ceto medio” non soltanto di non poter risalire la gerarchia sociale nel corso delle prossime generazioni, ma di essere desinato ad un processo di impoverimento che oggi pare ineluttabile, hanno spinto i cittadini europei lontano da forze politiche non più in grado di far conciliare gli interessi delle multinazionali (e del governo statunitense) con un welfare state e dei salari dignitosi.

    Questo processo, su un piano prettamente mobilitativo ha dato luogo a movimenti di varia natura, in alcuni casi anche dal respiro europeo; e le proteste degli agricoltori degli scorsi mesi ne sono un esempio. Su un piano elettorale, invece, è riscontrabile nel sempre crescente numero di tessere elettorali riposte in soffitta per via del senso di insofferenza nei confronti di simboli, tematiche, linguaggi e personaggi ben lontani dai problemi quotidiani della gente e, per l’appunto, nello spostamento a destra di parte dell’elettorato, con il ritrovamento di spazio e centralità per compagini lasciate per lungo tempo ai margini della politica europea. La capacità di tali partiti di capitalizzare consensi sta tutta nel promettere (perché oltre le promesse non è concesso andare) la tutela degli interessi particolari e sovrani dei singoli Stati contro un’Unione Europea vista dai più come matrigna, e la protezione degli interessi del vasto calderone che compone il ceto medio.

    Un ulteriore elemento, di certo non secondario, che ha favorito la crescita elettorale delle destre in questi anni è sicuramente la posizione “ambigua” (tutta di facciata, s’intenda) che tali forze politiche hanno mantenuto rispetto alla guerra in Ucraina, contrapponendosi alla postura ben più interventista dei partiti liberali e di centro-sinistra, schiacciati sulle posizioni a stelle e strisce anche nella retorica. Il tracollo di Macron, che fino all’altro ieri pareva pronto a invadere la Russia come Napoleone prima di lui, e perciò doppiato dal Rassemblement National di Marine Le Pen, ne è l’esempio più emblematico.

    L’andamento del voto in Italia

    Nessuna buona novella nemmeno per il Bel Paese. Il sempre crescente astensionismo in Italia non delude le attese e si conferma anche in questa tornata elettorale. Dalla nascita dell’Unione Europea a oggi, infatti, si registra un costante calo dell’affluenza nello Stato italiano. Per dare un’idea, se nel 1979, anno delle prime elezioni europee, andarono a votare l’85,65% dei cittadini italiani, quest’anno si sono presentati alle urne meno della metà degli aventi diritto (48,3%), il 6% in meno rispetto al 2019. Una tendenza che, al netto del conclamato disinteresse della popolazione verso le elezioni e le istituzioni europee in generale, non può essere attribuita esclusivamente al mancato senso di appartenenza degli italiani alla comunità europea (fatto salvo l’integerrimo cosmopolitismo degli studenti erasmus). Perché se la crescente sfiducia da parte dei popoli europei nei confronti della politica istituzionale è un fenomeno in divenire, ma generalizzato, in Italia tutto ciò si è verificato in maniera ben più acuta e con discreto anticipo.

    L’astensionismo in Italia, infatti, lungi dall’essere circoscritto alle elezioni europee, è ormai un dato di fatto anche nelle elezioni politiche, regionali e amministrative. Il motivo è presto detto: la totale sovrapponibilità di tutte le forze politiche dell’arco istituzionale, indipendentemente dal colore politico o dall’opposta retorica su temi di secondo piano, è ormai ben nota a buona parte della popolazione. Ne è testimonianza l’altalena elettorale che, negli ultimi quindici anni, ha spostato milioni di voti da Forza Italia alla Lega, passando per PD e 5 Stelle, fino ad arrivare alla situazione odierna, in cui i buoni risultati conseguiti alle urne da Fratelli d’Italia e dal Partito Democratico non si reggono sul consenso della maggioranza del paese, bensì sul fatto che la popolazione italiana ritenga più utile passare il weekend in famiglia, piuttosto che alzarsi dal divano per andare a votare.

    La sinistra, ben conscia della distanza che la separa da quello che dovrebbe essere il proprio elettorato di riferimento (vedasi l’apparente paradosso del 39% di voti ottenuto da FDI tra gli operai), in questa chiamata alle urne ha deciso di giocarsi una carta che sa di disperazione a chilometri di distanza. Data per assodata la sempre verde retorica spicciola sul voto utile come mezzo per contrastare l’inesorabile avanzata del fascismo, nelle settimane che hanno preceduto le elezioni opinionisti, influencer, giornalisti e intellettuali a vario titolo, direttamente o indirettamente sponsorizzati (e pagati) da partiti di sinistra, sono stati chiamati alle armi per mobilitare l’opinione pubblica su un unico tema: l’importanza di andare a votare in quanto diritto e dovere civico. Questa narrazione oltre che ad aver relativamente pagato sul piano elettorale, come dimostrato dal 24% conseguito dal PD – seppur favorito dalla crisi dei 5 Stelle – mira a rafforzare nell’immaginario collettivo e nell’opinione pubblica l’idea che l’unico mezzo di cui la popolazione si possa avvalere per esprimere il proprio dissenso nei confronti dell’attuale esecutivo e per tentare di agire nel reale sia quello di andare a votare.

    Non ti sta bene che i salari in Italia siano bloccati da ormai 30 anni? Non accetti che il potere d’acquisto di milioni di lavoratori sia stato eroso dall’inflazione e dall’aumento del costo della vita? Ritieni intollerabile che le politiche tanto nazionali quanto europee abbiano portato alla distruzione della sanità e della scuola pubblica, in favore della privatizzazione dilagante e dell’aumento delle spese militari? Vai a votare! Magari proprio per i partiti che oggi parlano di abolizione del jobs act e di introduzione del salario minimo, sebbene siano gli stessi che il jobs act l’hanno realizzato e che hanno scoperto l’esistenza del salario minimo solo dopo essere passati all’opposizione.In soldoni, il tentativo da parte della sinistra istituzionale, col benestare di Fratelli d’Italia, è quello di ricostruire un bipolarismo politico tutto apparente tra sinistra e destra. Un tentativo fallimentare già in partenza (di cui ancora una volta ne è testimonianza l’elevato astensionismo) di polarizzare la popolazione restituendo un senso politico alla dicotomia destra – sinistra dentro l’alveo istituzionale, evitando lo scollamento definitivo del ceto medio dal ceto dirigente e salvaguardando la pace sociale da possibili mobilitazioni di piazza in opposizione all’attuale classe politica tutta.

    In conclusione, una tendenza che si è confermata in quest’ultima tornata elettorale è l’opposizione dei giovani all’attuale governo. Infatti, nella fascia d’età 18-29 anni Fratelli d’Italia ha ricevuto soltanto il 14% dei voti, piazzandosi come quarto partito a breve distanza da Avs, PD, Movimento 5 Stelle.

    E in Sicilia?

    Manco a dirlo, la Sicilia fa storia a sé: il tasso di affluenza nell’isola, pari al 38%, è ben più al di sotto di quello del continente, sia per tutti i fattori fin qui descritti, sia perché buona parte della popolazione siciliana non si sente rappresentata a prescindere da nessun partito nazionale, perché ben conscia della logica coloniale alla base del rapporto tra Sicilia e Stato italiano, di cui tutte le forze politiche esistenti si fanno garanti. Da segnalare, il rallentamento dell’affermazione di Fratelli d’Italia nell’isola rispetto al resto dello Stato Italiano: il partito della Meloni ha ottenuto il 21,2% di voti, una distanza considerevole rispetto al 28,8% di consensi ottenuti a livello nazionale.

    Per quanto riguarda il rapporto tra la Sicilia e le istituzioni europee, non si può non tenere conto del fatto che il ruolo della nostra isola dentro le prospettive di lungo periodo dell’Unione sarebbe rimasto del tutto invariato, a prescindere dal risultato delle elezioni e dalla riconferma di Ursula von der Leyen. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha obbligato gli Stati europei a seguire le scelte di Washington nella guerra economica al Cremlino, tra cui la rinuncia agli idrocarburi russi, seguita dalla corsa a trovare nuove fonti di approvvigionamento energetico. In questo quadro, la Sicilia ha assunto una nuova centralità strategica per l’Unione Europea, venendo designata come snodo centrale per il passaggio del gas dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso il continente, e come hub di produzione di energia attraverso ogni fonte disponibile, con buona pace delle terribili conseguenze sul piano socioeconomico e ambientale per le persone che nell’isola ci vivono e vorrebbero continuare a farlo.

    Dulcis in fundo, nelle ultime settimane è emerso come le istituzioni europee siano interessate a riaprire alcune delle centinaia di miniere esistenti nell’isola ormai in stato di abbandono. L’obiettivo è estrarre numerose materie prime (tra cui litio, cobalto, e altre risorse) che, visto il pericolo sempre più concreto dell’attuazione di sanzioni unilaterali da parte degli Stati Uniti alla Cina, saranno necessarie agli Stati europei per la produzione di microprocessori e altre tecnologie all’avanguardia.

    Costruire un’alternativa credibile al sistema dei partiti

    Quelli fin qui analizzati (su tutti: l’astensionismo dilagante, la bocciatura del governo da parte dei giovani e la differenza di consenso a Fdi tra Sicilia e Italia) ci sembrano tutti sintomi di un malessere generalizzato che va interpretato e possibilmente tradotto in numeri nelle piazze, per costruire un’alternativa credibile al sistema dei partiti che, ancora una volta, tenta di autolegittimarsi nella dicotomia destra-sinistra, finendo per confinare la politica dentro uno schema di finta contrapposizione. Anche e soprattutto alla luce della condizione di sfruttamento che la Sicilia ha ed è destinata ad avere dentro lo Stato italiano e le istituzioni europee – foriere di drammatiche conseguenze che ricadono esclusivamente sulle spalle dei siciliani, con il beneplacito tanto della politica regionale quanto di quella nazionale – crediamo sia necessario approfondire le crepe nelle mura di una politica partitica ormai stantia e non rappresentativa dello stato di cose presenti, per costruire un nuovo spazio di possibilità e di rottura, per rivendicare la piena autodeterminazione dei siciliani.


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