Il 9 maggio ricorre il 45esimo anniversario dall’omicidio di Peppino Impastato, rivoluzionario siciliano, figura che tutt’oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, rimane divisiva nel panorama dell’antimafia istituzionale. In occasione di quella data migliaia di siciliani attraversano in corteo le strade di Cinisi, il paese dove è nato e ha militato tutta la sua vita.
Una vita da rivoluzionario
Peppino inizia il suo percorso di militanza avvicinandosi per la prima volta all’ambiente politico nel 1965, all’età di 17 anni, entrando immediatamente in conflitto con la sua famiglia, notoriamente mafiosa. Nello stesso anno entra a far parte del Psiup – Partito socialista italiano d’unità proletaria – fondando insieme ad altri compagni il giornale autoprodotto L’idea socialista, che viene ben presto attaccato e infine denunciato da esponenti locali.
Nel Sessantotto prende parte al movimento studentesco che stava smuovendo mondo, compresa la Sicilia e l’Università di Palermo. Sempre in quell’anno inizia a militare nei gruppi di Nuova Sinistra; sono gli anni in cui si batte, guidando manifestazioni e azioni di lotta, al fianco dei suoi compaesani, contro la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi, che prevedeva l’espropriazione delle terre di circa 200 famiglie, e dunque la riduzione in miseria delle stesse, all’interno di un progetto che aveva tutte le fattezze di un piano di riciclaggio di denaro sporco.
Intorno alla fine degli anni Settanta, periodo nel quale cominciano a nascere le prime radio autogestite in Italia, Peppino e i suoi compagni fondano, nel 1977, Radio Aut, emittente radiofonica siciliana autogestita, che volevano esule dal controllo del mainstream e che aveva l’obiettivo di «liberare soggettività e produrne di nuova». La radio andava in onda dalle ore 16 alla mezzanotte, e in quella fascia oraria si alternavano programmi dedicati alla cronaca, alla musica e, nel programma Onda pazza, alla satira – in cui Peppino sbeffeggiava la mafia locale, con particolare riferimento al boss Gaetano, detto Tano, Badalamenti, suo “vicino di casa”. L’obiettivo dichiarato della radio era non soltanto informare, ma anche e soprattutto fornire un potente mezzo per l’organizzazione e la coordinazione delle lotte e delle iniziative di massa.
L’anno successivo, nel Settantotto, Peppino si candida alle elezioni comunali nella lista di Democrazia Proletaria, ma alla fine non vi parteciperà. La sera del 9 maggio 1978, infatti, Peppino viene trovato morto sui binari della strada ferrata Trapani-Palermo, all’altezza del km 30+180. Della sua morte verranno date moltissime e contraddittorie versioni, come quella parecchio curiosa che lo avrebbe visto in qualche modo coinvolto nell’omicidio dell’On. Aldo Moro a Roma lo stesso giorno. Sin dal ritrovamento del corpo, la Procura e i vari rappresentanti dello Stato italiano faranno di tutto per dipingere Peppino come un terrorista o un suicida: si disse che aveva deciso di togliersi la vita o che avesse deciso di fare un attentato ai lavoratori, piazzando sui binari un esplosivo – generalmente impiegato nelle cave locali – che lo avrebbe, poi, accidentalmente ucciso.
I compagni di Peppino vengono immediatamente interrogati come complici. Le case della madre Felicia e della zia vengono perquisite, al contrario di quelle dei mafiosi che gestivano le cave in cui era impiegato l’esplosivo ritrovato.
Sui muri di Cinisi appare un manifesto, che dice che si tratta di un omicidio di mafia. Un altro manifesto a Palermo recitava: «Peppino Impastato è stato assassinato dalla mafia». Lo Stato italiano e le forze dell’ordine continueranno a depistare le indagini almeno fino a quando i compagni di Peppino, di comune accordo, non decidono di indagare sulla faccenda per conto loro, trovando diversi indizi – come una pietra insanguinata in un casotto poco lontano dal luogo di ritrovamento del corpo senza vita. Soltanto dopo diversi anni si arriverà alla verità, grazie alla tenacia dei compagni e della madre: la notte di quel 9 maggio, Peppino era stato rapito da sottoposti al servizio del boss Badalamenti, per essere condotto sui binari del treno Palermo-Trapani, picchiato a sangue, imbottito di esplosivi e poi fatto saltare in aria per simulare un attentato fallito. Magistrati, forze dell’ordine e portavoce delle istituzioni continueranno in tutti i modi a sminuire il fatto.
Né con la mafia né con lo Stato
Ad oggi, a quarantacinque anni di distanza, la narrazione delle istituzioni dello Stato italiano, che ai tempi della sua morte additavano Peppino come «terrorista» e «criminale», è profondamente cambiata: la figura del rivoluzionario siciliano è stata storpiata e assorbita dallo Stato italiano, al punto che ad oggi viene ricordato come un paladino della legalità, posto al pari di figure come i giudici Falcone e Borsellino sul podio dei paladini difensori dell’ordine costituito.
In piazza a Cinisi, il 9 maggio, così come durante altre celebrazioni ed eventi del fitto calendario dell’antimafia istituzionale, non è insolito vedere politici di ogni schieramento e rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura, spendere belle parole di commiato in memoria di Peppino, trasformato in una figura da annoverare nel grande pantheon degli «eroi dello Stato» in compagnia di martiri di guerra, sbirri, magistrati e, perché no, persino dell’onorevole Aldo Moro.
Comprendere la differenza tra queste figure è invece fondamentale. Da una parte ci sono i magistrati, le rispettive scorte e le forze di polizia tutte, che hanno combattuto una battaglia – alle volte alleandosi, altre volte scontrandosi – con la criminalità organizzata in difesa dello Stato italiano, della sua credibilità, delle sue istituzioni e del suo potere sul territorio; dall’altra, Peppino e i suoi compagni, che tra gli anni Sessanta e Settanta hanno lottato contro un sistema di potere e un modello di sviluppo difeso, con le relative differenze, parimenti dallo Stato e dalla mafia. Quello che la figura di Peppino ci restituisce è la necessità di lottare contro chi ha sempre fatto gli interessi dei padroni e di chi non aveva a cuore le sorti della Sicilia e dei suoi abitanti, ma era interessato solo allo sfruttamento delle sue risorse e della sua gente. La vita di Peppino, una vita da militante comunista passata in difesa delle classi popolari, è per noi l’esempio dell’unica vera lotta: per la rivoluzione e una Sicilia libera dai suoi tiranni e dal loro sfruttamento.
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