Intorno agli anni Sessanta, Cinisi, piccolo paese nel palermitano, è segnato da profonde contraddizioni sociali. Il controllo dello Stato italiano sul territorio siciliano si manifesta attraverso la mafia, sistema di sfruttamento parallelo e braccio armato dello stesso Stato in Sicilia.
Stato e mafia corrispondono a due facce della stessa medaglia, tenute insieme da taciti accordi. Alla base vige una logica comune: quella del profitto e dello sfruttamento – della terra così come della vita umana. Il primo si muove sotto la luce della legalità, la seconda nell’ombra dell’illegalità. Entrambe con l’obbiettivo di perseguire i propri interessi, ai danni di chi si trova nella loro strada.
Nel piccolo paesino di Cinisi qualcosa però comincia a muoversi, a remare contro il potere costituito. Qui emerge la lotta di Peppino Impastato e dei suoi compagni: una lotta il cui motore propulsivo risiedeva nella rabbia di chi era costretto a vedere con i propri occhi amici, familiari e concittadini sottostare al ricatto di chi deteneva il potere.
Peppino sapeva che la fonte di tutte le ingiustizie che attraversavano la sua terra gravitava intorno alla sete di profitto della classe dirigente e dei suoi sodali.
Sotto questa chiave bisogna leggere le proteste che ha portato avanti contro la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, che prevedeva l’espropriazione delle terre di circa 200 famiglie. Così come le proteste per la mancanza di infrastrutture, lavoro, strade e acqua nei paesini siciliani.
Lo sfruttamento e la devastazione che la Sicilia era costretta a subire è ciò contro cui il giovane rivoluzionario siciliano lottò fino alla morte.
Quella lotta Peppino non la portò solo nelle piazze, ma cercò di renderla reale anche attraverso un cambiamento sociale e culturale: attraverso la costruzione di circoli culturali e canali di contro informazione.
Quella lotta Peppino non la portò solo nelle piazze, ma cercò di renderla reale anche attraverso un cambiamento sociale e culturale: attraverso la costruzione di circoli culturali e canali di contro informazione.
Per tutti questi motivi la sua era una figura scomoda, che per questo che venne presto fatta fuori.
Per ben vent’anni regnò il silenzio sulla sua morte. Magistratura, forze dell’ordine, stampa, i portavoce dello Stato, tentarono in tutti i modi di sminuire e banalizzare l’accaduto.
Per ben vent’anni regnò il silenzio sulla sua morte. Magistratura, forze dell’ordine, stampa, i portavoce dello Stato, tentarono in tutti i modi di sminuire e banalizzare l’accaduto.
Ma a distanza di quarantaquattro anni, la narrazione delle istituzioni nei suoi confronti è cambiata. Il silenzio si è trasformato in storpiatura, comodo utilizzo strumentale della sua figura. Oggi Peppino viene ricordato come un paladino della legalità e dello Stato che lottava, al suo fianco, contro la mafia.
Nonostante la violenza e la pervasività con cui il suo ricordo continua ad essere oltraggiato, la lotta di Peppino è ancora viva.
Serve continuare a lottare per difendere i suoi ideali: affinché ognuno in Sicilia possa essere libero dall’opprimente presenza di un potere gerarchico e capitalista, della mafia così come dello Stato.
Serve continuare a lottare per difendere i suoi ideali: affinché ognuno in Sicilia possa essere libero dall’opprimente presenza di un potere gerarchico e capitalista, della mafia così come dello Stato.
Lascia un commento