di Lanfranco Caminiti
Giuliano Amato – il babbo era siciliano, di Agrigento, emigrato giovanissimo al nord – è un profondo conoscitore delle istituzioni: socialista, più volte deputato, sottosegretario alla presidenza del consiglio, più volte ministro, presidente del Consiglio lui stesso, papabile (per due volte) alla presidenza della Repubblica, infine giudice e presidente della Corte costituzionale. Da presidente del Consiglio, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1992, attuò l’unica “patrimoniale” che sia mai stata fatta in questo paese – prelevando forzosamente dai conti correnti degli italiani il 6 per mille: come un ladro di notte, indiscriminatamente. Da presidente della Corte costituzionale rigettò nel 2022 l’ammissibilità dei referendum su cannabis e eutanasia, con motivazioni più legate alla “sensibilità politica” che alle motivazioni giuridiche. È di quegli uomini, insomma – per chi piace credere e pensare queste cose – del “deep state”.
Che cosa abbia spinto un uomo che definire prudente – è praticamente l’unico socialista che si sia salvato dal ciclone “Tangentopoli-Mani pulite” e abbia accresciuto la sua presenza politica e istituzionale – sarebbe un eufemismo, sempre ellittico quando non elusivo, a lanciare a freddo (non c’era un anniversario, non c’era un fatto giudiziario, una testimonianza, un che) la sua bomba-carta su Ustica, di concerto con il quotidiano «la Repubblica», e il giorno dopo fare rapidamente marcia indietro, può annoverarsi tra i “misteri italiani”.
Che cosa ha detto Amato su Ustica? Che è suo convincimento che responsabile di quella tragedia fu una sorta di “battaglia nei cieli” accaduta quella notte intorno un MIG libico e che un missile francese fu per errore lanciato contro l’Itavia. Di non avere alcuna “prova provata” di questa sua convinzione ma di avere accumulato nel tempo informazioni ai più alti livelli, militari e tecnici. In realtà, Amato aveva già detto, e in audizioni alla Commissione Stragi, queste sue idee con parecchi distinguo, ma ora le affermava con maggiore perentorietà, tirando per la giacchetta Craxi, Cossiga, il giornalista Purgatori (tutti morti) e concludendo con un secco J’accuse: «Macron si scusi».
Il quotidiano «la Repubblica» – che peraltro proprio su Ustica ha un longform di anni e quindi un bel po’ di materiale a cui attingere – ha dato ampio risalto all’intervista, amplificandone politicamente la portata. Che però è stata subito ridimensionata dallo stesso Amato nel giro di 48 ore, prima con un classico «Sono stato frainteso» e poi, con una conferenza-stampa internazionale, con un ancora più accomodante: «L’unico contenzioso con la Francia è la testata di Zidane a Materazzi», l’iconico fermo-immagine del 9 luglio 2006, finale di Coppa del mondo.
Qual è intanto la “verità giudiziaria” su Ustica? Anni di processi, di perizie tecniche sull’aereo intanto recuperato dal fondo del mare, di commissioni parlamentari non hanno prodotto alcuna certezza tra l’ipotesi di una bomba a bordo, piazzata nella toilette dell’aereo, e quella di un “evento esterno” (un missile o una collisione). Le gerarchie militari – che praticarono omissioni e nascondimenti di tutti i tracciati aerei e delle comunicazioni di quella notte – furono accusate di depistaggio, ma nessuno venne condannato, come se fossero state praticate per una sorta di “autodifesa corporativa” senza alcuna volontà di manomissione per uno scopo criminale. Le indagini giornalistiche, che si scontrarono con un “muro di gomma”, rafforzarono l’ipotesi di un missile, sposata anche dall’Associazione familiari delle vittime di Ustica, ma non c’è mai stata una “pistola fumante” in grado di diventare anche sentenza. Sentenze civili hanno condannato i ministeri, proprio per la cumulazione di manomissioni, a risarcire la società Itavia, nel frattempo fallita, e i familiari delle vittime. Questo è lo stato delle cose: una sorta di convincimento di opinione diffusa che la tragedia di quella notte sia da addebitare a un evento militare, parallelo alle sentenze che si dicono impossibili a raggiungere una vera verità.
La domanda che ci si è posti immediatamente alle esternazioni di Amato – visto che non aggiungeva una virgola, dal punto di vista dei fatti e anzi aggiungeva qualche strafalcione di date, però “alzava il tono” della questione politica e in termini internazionali, provocando una appena trattenuta irritazione del governo – è stata: perché Amato dice queste cose?
Si è sentito di tutto: dalla “evidente senilità” del Nostro al bisogno de «la Repubblica» di coprire il vuoto estivo di notizie e recuperare un po’ di lettori per far fronte a un preoccupante calo di vendite; da un “allineamento” a un clima nazionalistico, magari proponendosi per un futuro qualche ruolo, chissà un post-Mattarella, a un rigurgito di anti-atlantismo; da un qualche collegamento tra la bomba sull’aereo e quella della stazione di Bologna – nell’ipotesi che la stessa mano sia “palestinese”. Tutte ipotesi che però se possono essere convincenti per l’una cosa non lo sono per l’altra: immaginare Amato come un anti-americano, ce ne vuole di fantasia; e pensare «la Repubblica», che sulla guerra di Ucraina non ha mai avuto un etto di incertezza, come anti-atlantista ne occorre ancora di più: tanto che qualcuno ha detto che in realtà è un’intervista iper-atlantista dato che “l’obiettivo” è Macron che sulla guerra esprime sempre opinioni non proprio allineate. I dietrologi, insomma, hanno avuto pane da masticare e sputare. Lievitato dall’immediata “sfilata” di ex-generali, ex-tecnici, ex-politici, ex-magistrati, ognuno dei quali ha detto la sua, in contrasto con quella che dicevano gli altri: fu una bomba, no fu un missile. Tanto più per l’indietro tutta con cui Amato, che di certo non poteva non aspettarsi la gran caciara che ne è venuta, ha provato in tutti i modi a ridimensionare se stesso.
Naturalmente, di questo bailamme è possibile l’ipotesi più banale di una tempesta in un bicchier d’acqua, ma forse è necessario, per provare a trovare un lumicino di sapienza, staccarsi un po’ dalla “contingenza” e pensare a quella definizione che Amato personalmente in persona diede del “potere” dei presidenti della Repubblica, ovvero un “potere a fisarmonica”, tanto più invasivo quanto più la crisi dei partiti e di sistema si fa significativa, non limitandosi cioè alla canonica moral suasion, ma intervenendo, più o meno dietro le quinte, in modo diretto. E se pensiamo al ruolo assunto dai presidenti, da Oscar Luigi Scalfaro in qua – non si può non pensare a una “repubblica dei presidenti”, tanto più da quando il presidenzialismo è diventato materia di discussione costituzionale e politica. E possibile scenario di “riforma costituzionale”.
In questo quadro, assume un suo interesse, proprio perché “proietta” in avanti l’affaire Amato, l’intervista di Rino Formica, anche lui socialista di vecchio conio e che ben conosce Amato e le “cose di dentro” al Palazzo, al «Domani»: «L’uscita di Giuliano Amato su Ustica non è casuale, non lo è neppure il rilievo editoriale che le è stata data, non può essere considerata come un incidente. È un intervento che va inquadrato nel clima di questi ultimi mesi. Si vuole spingere il paese a prendere atto che un assetto si è definitivamente concluso e se ne deve aprire un altro. Per aprire una nuova fase costituente bisogna azzerare la repubblica, annacquare ogni differenza in una responsabilità collettiva, in misteri che coprono misteri. Con l’obiettivo di superare la fase repubblicana e avviare la fase della democrazia diretta, presidenziale».
Magari è solo una antica “resa dei conti” tra socialisti, magari Formica alambicca un po’ troppo – però è l’unico sguardo che ha tentato una “lettura politica” dell’ennesimo mistero di fine estate italiana. Ancorata a due fatti evidenti – la crisi del sistema politico dei partiti e il “rispolvero” del premierato, di pari passo con l’autonomia differenziata, cioè con una riformulazione dell’assetto della forma-stato e del rapporto nord-sud.
Di sicuro c’è solo che gli 81 morti di Ustica aspettano ancora la verità.
6 settembre 2023.
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