Sono passati 53 anni dal 2 dicembre del 1968. Una data che segna irrevocabilmente la storia siciliana e che ancora oggi ci impone di guardare a quei tempi non come pezzi di storia destinati all’oblio della memoria collettiva, ma come un filo conduttore, tra ieri e oggi, della lotta contro le ingiustizie perpetrate sulla nostra isola.
Quello di Avola, infatti, non è solo un episodio della repressione contro il bracciantato meridionale, ma un’espressione molto più ampia del contesto politico-sociale siciliano, in cui lo sdegno per l’oppressione dei ceti dominanti, la precarietà e la contraddittorietà del sistema si palesarono dando vita a un’incredibile resistenza.
I braccianti chiedevano giustizia…
Le lotte bracciantili siciliane del ’68 -’69 si collocano nell’ambito della forte ripresa sindacale di quegli anni, legata all’emergere delle contraddizioni del modello di sviluppo italiano, che basava la propria forza sui bassi salari e sulla discriminazione del Mezzogiorno. Il movimento contadino irrompe in Sicilia, dove le contraddizioni di questo sistema erano più forti ed evidenti.
La lotta dei braccianti siciliani ha inizio già nel novembre del 1968. Sotto il grido di giustizia, i braccianti diedero inizio a una serie di scioperi, rivendicando la parificazione delle due zone salariali in cui era divisa la provincia di Siracusa, miglioramenti economici e l’introduzione di una normativa volta a consentire nelle aziende il controllo delle applicazioni contrattuali.
Di fronte a queste richieste e all’istituzione di commissioni comunali paritetiche, si manifestò subito la forte ostilità degli agrari. Tale resistenza da parte di chi deteneva i vasti fondi terrieri, porterà i lavoratori a indire lo sciopero generale del 2 dicembre e poi allo scontro delle ore 14 sulla Statale 115. Quel giorno tutta la popolazione scese in piazza. Studenti, madri, figli si unirono a fianco dei braccianti per rivendicare il loro diritto alla vita e alla dignità.
… e ricevettero colpi di mitra
Come è solito rispondere lo Stato italiano a chi sceglie di farsi sentire, a chi invece di abbassare la testa, pretende un salario che permetta di campare? Repressione.
Nove camionette si fecero largo sulla Statale 115.
Novanta poliziotti, mitra alla mano, il tascapane pieno di lacrimogeni, l’elmetto d’acciaio col sottogola abbassato, si piazzarono di fronte ai manifestanti avolesi.
All’ordine secco gridato dall’ufficiale, una prima scarica di lacrimogeni venne lanciata sugli scioperanti. Seguì la raffica di spari. Alla violenza dei colpi di mitra si contrapposero le pietre, scagliate dai lavoratori. La forza repressiva dello Stato si abbatté con violenza sui siciliani in rivolta. Due le vittime, oltre 40 i feriti e 150 i denunciati. Per strada rimasero più di due chili di bossoli.
L’assassinio di Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona non fu un incidente, non fu il risultato della fatalità, ma una sbrigativa risoluzione della ribellione di un popolo che chiedeva solo 300 lire in più e il diritto di non cedere all’abuso degli agrari reazionari del siracusano.
Lacrime e sangue
Gli eventi del 2 dicembre si posizionano simbolicamente a chiusura del Sessantotto siciliano. Ma sono anche il culmine delle stragi perpetrate dalla polizia negli anni Sessanta ai danni dei lavoratori siciliani. Nelle enormi proteste contro il governo Tambroni, «per il lavoro e per il pane», la polizia aveva sparato sui manifestanti a Catania, a Palermo e a Licata, facendo morti ovunque.
Poi venne il tempo dei processi – non alla polizia, ma ai manifestanti che avevano arrestato. A Catania c’erano stati 121 fermati, 44 arrestati e 70 denunciati a piede libero per i reati di adunata sediziosa, resistenza aggravata alla forza pubblica, oltraggio e lesioni aggravate. A Palermo 400 fermi. Ne condannarono una trentina a Catania e altrettanti a Palermo. Centinaia di anni di carcere. Era andata sempre così, dai tempi dei fasci siciliani; e sarebbe andata ancora così, perché qualche anno dopo spararono di nuovo ad Avola.
La repressione, lo schieramento di polizia, il tentativo continuo di pacificare un’isola impacificabile sarà – e continua a essere – l’unica presenza dello Stato italiano in Sicilia. Assente, invece, nella garanzia di diritti altrove garantiti, di condizioni lavorative e di vita dignitose. Lo Stato italiano ha costruito la sua esistenza e storia sul sangue dei siciliani, forzando la Sicilia in una Unità utile solo a mantenere la ricchezza dei padroni, delle classi privilegiate – asservite al potere centrale, dunque del Nord – opprimendo, umiliando, sfruttando – qui o altrove – le classi subalterne.
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