Da oltre un mese a questa parte l’Europa intera è in fibrillazione per via delle proteste degli agricoltori e allevatori. Le città e le principali capitali europee sono state invase da orde di trattori in marcia contro le politiche UE, l’aumento dei costi produttivi, la concorrenza sleale delle aziende straniere. Ad un primo sguardo parrebbe semplice attribuire un carattere sostanzialmente unitario e omogeneo al fenomeno: la borghesia agraria che si batte per il mantenimento dei propri privilegi, messi in discussione dalla crisi economica, ormai cronica nel Vecchio Continente. Elettori di destra che manifestano in difesa di temi tanto cari ai conservatori europei.
Eppure, sappiamo bene che una valutazione aprioristica non è possibile. Serve scendere nelle piazze e nei presidi per confrontarsi con il mondo reale in tutte le sue sfumature e contraddizioni. La mobilitazione sociale che sta prendendo piede è impura, contorta, dagli esiti imprevedibili, perché materiale e concreta.
Per non scivolare in interpretazioni che rischiano di farsi sfuggire il particolare nel tentativo di ricostruire il generale, bisogna prendere atto della specificità e complessità dei contesti di lotta, e l’andamento della protesta in Sicilia non fa eccezione.
Le cause
La mobilitazione nell’isola, iniziata nei primi giorni di gennaio con dei presidi spontanei, poi diffusisi a macchia d’olio in tutta la Sicilia, ha sicuramente preso piede sulla scia dell’esempio e dell’entusiasmo di quanto stava già accadendo in Francia e Germania. Al netto di ciò, ritenere l’ascesa della protesta in Sicilia una copia carbone di ciò che si è verificato sul Continente significherebbe confondere la contingenza degli eventi che si susseguono sotto i nostri occhi con le cause profonde che li hanno innescati. Discorso analogo per quanto concerne l’andamento della protesta nel resto dello Stato italiano: le manifestazioni in Sicilia, infatti, hanno preceduto l’inizio della mobilitazione nazionale – partita lo scorso 22 gennaio – di quasi due settimane, e ancora oggi proseguono su binari paralleli.
In primo luogo, ciò è dovuto all’importanza che il settore agricolo riveste per la nostra Isola, sia in termini occupazionali che di ricchezza generata. L’agricoltura e la zootecnia in Sicilia rappresentano l’8,6% del Pil, numeri che non hanno eguali nel resto d’Europa.
La nostra isola, fatte salve poche eccezioni, si trova priva di un settore industriale degno di questo nome, oltre che di grandi aziende che permettano ai lavoratori di inserirsi nel terziario. Il mondo del lavoro in Sicilia poggia essenzialmente su tre pilastri: un settore pubblico ipertrofico, un turismo sì in grande crescita negli ultimi anni, ma dal potenziale mai sfruttato appieno, e per di più dominato da lavoro precario, sottopagato e quasi sempre in nero e, per l’appunto, l’agricoltura.
L’esistenza stessa di innumerevoli comuni sparsi in tutta l’isola, che contano poche migliaia di abitanti a testa, è garantita dal fatto che più della metà dei residenti è impiegata nel settore agricolo, e con il proprio reddito mantiene in vita l’economia locale.
In soldoni, il settore agricolo in Sicilia garantisce uno dei principali sbocchi lavorativi in una delle regioni col più basso tasso d’occupazione d’Europa, e il principale argine contro lo spopolamento a cui sono soggette le aree interne, risultando vitale per la tenuta sociale dell’isola e, di contro, una molla indispensabile per far scattare una mobilitazione generale.
Inoltre – e qui si può evidenziare una differenza non di poco conto tra la Sicilia e il Continente – il settore agricolo isolano non è dominato da poche, grandi aziende che detengono l’oligopolio della produzione agroalimentare, ma da una miriade di piccole imprese (142.000 nel 2021, di cui 137.000 a conduzione individuale o familiare) che annaspano nel tentativo di resistere alle calamità naturali e all’altalena dei prezzi dei prodotti nel mercato globale, che rischiano di mandarle in perdita anno dopo anno.
È proprio su queste basi che è possibile vedere con chiarezza come la crisi dell’agricoltura e dell’allevamento in Sicilia, prima ancora che innescata dall’aumento dei costi di produzione degli ultimi anni, dovuto all’impennata dei prezzi delle materie prime e dalle sempre più stringenti politiche europee, sia figlia della concorrenza impari tra i colossi del settore primario e le piccole aziende locali, con la complicità dello Stato italiano e della Regione Siciliana, che non hanno alzato un dito in difesa dei produttori siciliani.
Per riuscire ad accumulare profitti nel settore agroalimentare, visti i prezzi stracciati a cui vengono venduti i frutti della terra, è necessario diversificare quanto più possibile la produzione, sperando di compensare le perdite dovute al crollo del valore di una merce con la valorizzazione di un’altra, oltre che produrre in quantità industriali. Le piccole aziende siciliane, per via della penuria di mezzi e risorse, non sono state in grado di fare né l’una né l’altra cosa. Così i pesci piccoli, a causa dei debiti accumulati per aver investito tutto in prodotti che non hanno generato i guadagni sperati, sono stati costretti a vendere la terra ad aziende più grosse o alle multinazionali dell’energia per non finire sul lastrico. Il risultato? Nel giro di un decennio il numero di aziende agricole è diminuito del 35%, passando da 220.000 alle già citate 142.000.
E cos’è successo agli agricoltori rimasti senza terra e alle proprie famiglie? Sono andati a cercar fortuna fuori dalla Sicilia, diventando manodopera per i centri produttivi dello Stato italiano e, perché no, lasciando campo libero per la costruzione di ulteriori impianti energetici e basi militari.
La specificità della crisi dell’agricoltura siciliana, seppur inserita all’interno di dinamiche che vanno sicuramente al di là di Scilla e Cariddi, non può essere compresa se non si tiene conto di come essa risulti funzionale alla condizione coloniale in cui la Sicilia è posta dallo Stato italiano, ben consapevole di star mandando al macero uno dei settori produttivi vitali dell’isola.
Un piccolo prezzo da pagare per trasformare l’isola nel nuovo hub energetico italiano ed europeo, con buona pace di chi qui ci vive e vorrebbe continuare a farlo.
Ma questi agricoltori sono di destra?
Veniamo dunque al tasto dolente. Questi agricoltori sono di destra? Sono i proprietari dei mezzi di produzione e accumulatori seriali di plusvalore a danno dei lavoratori salariati a occupare le piazze e le strade di tutta la Sicilia? Probabilmente chi si aspettava di marciare coi trattori sulle autostrade cantando l’inno dell’Internazionale con il pugno chiuso e il braccio sinistro rivolto al cielo potrebbe restar deluso.
Il movimento a cui stiamo assistendo in Sicilia rappresenta una feroce e determinata opposizione alle conseguenze della globalizzazione, alla proletarizzazione delle masse, allo strapotere delle multinazionali e al libero mercato in quanto mezzo per l’arricchimento di pochi a danno di tutti gli altri. È un movimento che ha tolto la maschera all’Unione Europea guardandola dritta negli occhi per ciò che è davvero: uno spazio di libero mercato funzionale agli interessi delle multinazionali.
La direzione politica che prenderà sarà determinata soltanto dai soggetti che sceglieranno di attraversarlo.
C’è poi chi sottolinea la presunta opposizione dei manifestanti verso le politiche nazionali ed europee per ridurre le emissioni e contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Ancora una volta, è necessario tracciare un solco tra quanto sta accadendo in Sicilia e al di là dello Stretto. Uno dei motivi che ha animato la mobilitazione in Germania, per esempio, è la contrapposizione al Green Deal, che prevede – tra le altre cose – il divieto di uso di pesticidi e la riconversione al biologico di almeno il 25% dei terreni coltivati entro il 2030.
Questo elemento è del tutto assente dall’agenda degli agricoltori e allevatori siciliani, non solo per via del clima più favorevole che rende queste misure non particolarmente stringenti, ma soprattutto per via del fatto che, nel corso degli anni, i lavoratori siciliani hanno, anzi, pagato a caro prezzo le conseguenze del cambiamento climatico.
L’aumento esponenziale degli incendi e la siccità che ha colpito l’isola – tanto da spingere il Governo Regionale a dichiarare lo stato di calamità – hanno causato danni enormi a tutti gli impiegati nel settore agricolo.
Gli agricoltori e allevatori siciliani, infatti, stanno scendendo in piazza anche per la salvaguardia della terra e dell’ambiente, di cui si sentono custodi, opponendosi alla svendita dei propri terreni ai colossi che stanno cercando di acquistare migliaia di ettari di terreni per realizzare impianti di panelli fotovoltaici piantati al suolo.
Le forme della protesta
Interessante è anche citare le forme della lotta: presidi temporanei e permanenti, all’interno dei comuni, nelle campagne, accanto agli svincoli autostradali; trattori in marcia su provinciali, stradali e raccordi delle autostrade; blocchi stradali, rallentamenti del traffico; cortei a piedi; riunioni quotidiane nelle cantine, nei bar, nei presidi. Rifiuto di ogni tipo di delega alla politica istituzionale e ai sindacati, perché riconosciuti come meri esecutori di diktat stabiliti a Roma e Bruxelles. Forme che richiamano quanto accaduto 10 anni fa in Sicilia con l’avvento dei Forconi, movimento che sicuramente ha segnato la storia delle lotte siciliane nel campo dell’agricoltura.
Il futuro che hanno previsto per la nostra terra e i nostri compiti
Sostenere che l’attuale mobilitazione sia un’azione corporativa di un gruppo di privilegiati significa distorcere la realtà in favore di un pregiudizio, ridurre la complessità del reale a un livello talmente esasperato da non riuscire a guardare oltre la punta del proprio naso senza rimanere fatalmente accecati. Nei giorni, settimane, mesi a venire ancora una volta ci sarà la possibilità di mettere in discussione un futuro di miseria e desertificazione previsto dai politici per la nostra terra e spetterà soltanto a chi attraverserà la protesta, agendo per garantire una direzione diversa da quella prevista dai governanti alla realtà, senza paura di scottarsi.
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